Avv. Ettore Nesi – ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ: Vincoli espropriativi e conformativi. Rilevanza dello sfruttamento economico e commerciale dell’area sottoposta a vincoli impressi dagli strumenti urbanistici nell’individuazione della natura conformativa o meno dei medesimi vincoli

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1. Copertura costituzionale dei limiti alla proprietà privata e del potere della P.A. di espropriarla per motivi di interesse generale. L’art. 42 Costituzione.

Il comma 2° dell’art. 42 Cost. stabilisce che «la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti».

Il successivo comma 3° del medesimo art. 42 prevede che «la proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale».

La Costituzione, da un lato, sancisce la funzione sociale della proprietà, dall’altro lato, acconsente che beni privati siano appresi dalla mano pubblica “per motivi di interesse generale” e salvo indennizzo (cfr. art. 834 cod. civile).

Come osservato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 55 del 29 maggio 1968 «la garanzia della proprietà privata è condizionata, nel sistema della Costituzione, dagli artt. 41 al 44, alla subordinazione a fini, dichiarati ora di utilità sociale, ora di funzione sociale, ora di equi rapporti sociali, ora di interesse ed utilità generale. Ciò con maggiore ampiezza e vigore di quanto è stabilito dagli artt. 832 e 845 del Codice civile, i quali, per il contenuto del diritto di proprietà fondiaria in particolare, richiamano, rispettivamente, i limiti e gli obblighi stabiliti “dall’ordinamento giuridico” e le regole particolari per scopi di pubblico interesse».

2. Il vincolo espropriativo apposto dagli strumenti urbanistici sulle aree occorrenti alla realizzazione di opere pubbliche o di pubblica utilità. Necessità che i vincoli espropriativi abbiano durata temporanea.

In tema di espropriazione per pubblica utilità, presupposto fondamentale per l’esercizio del potere ablatorio da parte dell’Autorità espropriante è l’apposizione del vincolo espropriativo sulle aree occorrenti alla realizzazione dell’opera pubblica o di pubblica utilità.

Le altri fasi del procedimento espropriativo, ora positivizzate insieme alla prima all’art. 8 d.P.R. n. 327/2001, sono la dichiarazione di pubblica utilità e la determinazione (anche provvisoria) dell’indennità di esproprio.

Anteriormente all’emanazione della legge urbanistica (legge 17 agosto 1942, n. 1150), la previsione dell’opera di interesse generale e l’espropriazione delle aree occorrenti a tal fine non si inserivano all’interno della pianificazione del territorio che non era ancora normata (salvo che in ipotesi peculiari), a ciò bastando la dichiarazione di pubblica utilità di cui al Capo II legge 25 giugno 1865, n. 2359 e la conseguente adozione del decreto di esproprio (cfr. commento all’art. 8 d.P.R. n. 327/2001 di G. Mescia, in R. Garofoli e G. Ferrari, Codice dell’espropriazione e della perequazione urbanistica, Roma, 2013, p. 147).

Soltanto con la legge urbanistica la realizzazione di opere pubbliche è divenuta parte integrante della pianificazione comunale alla quale è stata demandata l’indicazione delle aree del territorio comunale (pubbliche o private) destinate ad opere pubbliche o di pubblica utilità.

La giurisprudenza costituzionale e amministrativa ha ricavato dall’art. 7 legge 17 agosto 1942, n. 1150 il fondamento normativo del potere della P.A. di imporre vincoli alla proprietà privata finalizzati all’espropriazione di essa.

Con sentenza n. 55 del 29 maggio 1968 la Corte Costituzionale ha in particolare osservato che l’art. 7 l. n. 1150/1942 «contempla, nella sua articolata formulazione, un complesso di imposizioni, immediatamente operative, tutte collegate dal fine della legge (art. 1) di dare assetto ai centri abitati: tra le quali imposizioni sono sicuramente comprese, sia ipotesi di vincoli temporanei (ma di durata illimitata), preordinati al successivo (ma incerto) trasferimento del bene per ragioni di interesse generale, sia ipotesi di vincoli che, pur consentendo la conservazione della titolarità del bene, sono tuttavia destinati a operare immediatamente una definitiva incisione profonda, al di là del limiti connaturali, sulla facoltà di utilizzabilità sussistenti al momento dell’imposizione».

Da qui il riconoscimento da parte della Corte Costituzionale dell’illegittimità della disciplina dell’indeterminatezza temporale dei vincoli preordinati all’espropriazione contenuta nella legge urbanistica in difetto di indennizzo (cfr. artt. 7 e 40 l. n. 1150/1942); ciò per contraddizione con il comma 3° dell’art. 42 Cost. nella già citata decisione n. 55 del 29 maggio 1968 (sent. n. 55/1968).

Con la c.d. legge tampone (legge 19 novembre 1968, n. 1187) venne stabilito che le previsioni di P.R.G. preordinate all’espropriazione o comportanti l’inedificabilità perdessero efficacia qualora, nel termine di cinque anni dall’apposizione del vincolo espropriativo, non fosse stato approvato l’atto recante la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera pubblica.

3. (segue): le questioni lasciate aperte dalla legge tampone e risolte in via pretoria dal Giudice Amministrativo e dalla Corte Costituzionale.

La legge tampone omise peraltro di normare la disciplina dei suoli successivamente alla decadenza del vincolo espropriativo, nonché la reiterazione dei vincoli decaduti.

3.1. La prima questione venne risolta in via pretoria. Con la decisione n. 12 dell’11 gennaio 1984 l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato affermò la regola iuris secondo cui, nel caso di decadenza di vincoli espropriativi, avrebbe dovuto trovare applicazione l’art. 4, ultimo comma, legge 28 gennaio 1977, n. 10. Secondo l’Ad. Plen. tale disposizione, intesa a disciplinare l’attività edilizia per il caso di Comuni sprovvisti di strumenti urbanistici generali, avrebbe potuto trovare applicazione anche all’ipotesi, ricorrente nel caso di decadenza di vincoli espropriativi, di parziale lacuna dello strumento urbanistico.

A ciò si aggiunga che a seguito della decadenza di vincolo preordinato ad esproprio e alla inerzia dell’ente territoriale nell’attribuire al terreno una nuova destinazione, «il proprietario non resta senza tutela ma può promuovere gli interventi sostitutivi oppure attivare la procedura di messa in mora e tipizzazione giurisdizionale del silenzio davanti al giudice amministrativo» (cfr. Cons. St., Sez. IV, 7 novembre 2012,  n. 5667, nonché Cass., SS.UU., 6 maggio 2009, n.10362).

3.2. Sulla questione della reiterazione in via amministrativa dei vincoli espropriativi, dapprima è intervenuta la giurisprudenza amministrativa la quale ha affermato il principio secondo cui l’esercizio del potere di reiterazione del vincolo possa essere esercitato solo sulla base di una idonea istruttoria e di una adeguata motivazione che faccia escludere un contenuto vessatorio o comunque ingiusto dei relativi atti, occorrendo l’effettiva cura di un pubblico interesse. Infatti, «l’Amministrazione deve indicare la ragione che la induce a scegliere nuovamente proprio l’area sulla quale la precedente scelta si era appuntata: la reiterazione del vincolo espropriativo, sic et simpliciter, non è dunque consentita, dovendo l’Amministrazione evidenziare l’attualità dell’interesse pubblico da soddisfare, in quanto si va ad incidere sulla sfera giuridica di un proprietario che già per un quinquennio è stato titolare di un bene suscettibile di dichiarazione di pubblica utilità e successivamente di esproprio» (Cons. St., Sez. IV, dec. n. 159/1994).

Poi, al fine di ovviare alla perdurante lacuna normativa circa l’indennizzabilità dei vincoli espropriativi reiterati, è dovuta nuovamente intervenire la Corte Costituzionale. Muovendo dalla premessa secondo cui «è propria della potestà pianificatoria la possibilità di rinnovare nel tempo i vincoli su beni individuati, purché, come ritenuto dalla giurisprudenza amministrativa, risulti adeguatamente motivata in relazione alle effettive esigenze urbanistiche» (sentenza n. 575 del 1989), con sentenza n. 179 del 20 maggio 1999 la Corte Costituzionale ha affermato che «assumono certamente carattere patologico quando vi sia una indefinita reiterazione o una proroga sine die o all’infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo determinato che si ripetano aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite temporale sia indeterminato, cioè non sia certo, preciso e sicuro e, quindi, anche non contenuto in termini di ragionevolezza (sentenza n. 344 del 1995). Ciò ovviamente in assenza di previsione alternativa dell’indennizzo (sentenze n. 344 del 1995; n. 575 del 1989), e fermo, beninteso, che l’obbligo dell’indennizzo opera una volta superato il periodo di durata (tollerabile) fissato dalla legge (periodo di franchigia)».

Cosicché – osserva sempre la Corte Costituzionale nella citata sentenza n. 179/1999 – «per i vincoli derivanti da pianificazione urbanistica (come sopra delimitati), l’obbligo specifico di indennizzo deve sorgere una volta superato il primo periodo di ordinaria durata temporanea (a sua volta preceduto da un periodo di regime di salvaguardia) del vincolo (o di proroga per legge in regime transitorio), quale determinata dal legislatore entro limiti non irragionevoli, come indice della normale sopportabilità del peso gravante in modo particolare sul singolo, qualora non sia intervenuta l’espropriazione ovvero non siano approvati i piani attuativi. In altri termini, una volta oltrepassato il periodo di durata temporanea (periodo di franchigia da ogni indennizzo), il vincolo urbanistico (avente le anzidette caratteristiche), se permane a seguito di reiterazione, non può essere dissociato, in via alternativa all’espropriazione (o al serio inizio dell’attività preordinata all’espropriazione stessa mediante approvazione dei piani attuativi), dalla previsione di un indennizzo».

Da qui l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 7, numeri 2, 3 e 4, e 40 della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (Legge urbanistica) e 2, primo comma, della legge 19 novembre 1968, n. 1187 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150), nella parte in cui consente all’Amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti, preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificabilità, senza la previsione di indennizzo.

3.3. Le suddette acquisizioni giurisprudenziali sono state codificate nel vigente art. 9 d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 il quale prevede al comma 2° la durata di 5 anni dei vincoli espropriativi; al comma 3° l’applicabilità, nel caso di decadenza del vincolo espropriativo, degli indici di edificabilità ora recati dall’art. 9 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (già art. 4, ultimo comma, legge n. 10/1977); al comma 4° la reiterazione in via amministrativa dei vincoli espropriativi.

4. Vincoli espropriativi e vincoli conformativi.

4.1. La previsione di decadenza quinquennale dei vincoli espropriativi è all’origine della copiosa giurisprudenza intesa a individuare quali fossero i vincoli impressi dagli strumenti urbanistici destinati a decadere, avendo invece efficacia temporalmente illimitata quelli c.d. conformativi.

Dal formante giurisprudenziale si ricava infatti che non ogni vincolo posto alla proprietà privata dallo strumento urbanistico generale ha carattere espropriativo.

Come recentemente osservato dalla Sezione I del T.A.R. Veneto (sent. 11 giugno 2013, n. 798) occorre «distinguere tra vincoli espropriativi e vincoli conformativi, secondo una linea di discrimine che ha un preciso fondamento costituzionale, in quanto l’art. 42 della Costituzione prevede separatamente l’espropriazione (terzo comma) e i limiti che la legge può imporre alla proprietà al fine di assicurarne la funzione sociale (secondo comma)».

4.2. La sussistenza di vincoli preordinati all’espropriazione, contenuti nel piano regolatore generale ovvero in altri strumenti urbanistici è valutata dalla giurisprudenza “in senso strettamente contenutistico” (Cons. St., Sez. IV, 27 dicembre 2011,  n. 6874).

Più precisamente, viene affermato che «costituiscono vincoli soggetti a decadenza solo quelli preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificazione, e che dunque svuotino il contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene, tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, ovvero diminuendone in modo significativo il suo valore di scambio. (Consiglio di Stato, sez. V, 3 gennaio 2001 n. 3; id. sez. IV, 17 aprile 2003 n. 2015 e 22 giugno 2004 n. 4426)» (Cons. St., Sez. IV, sent. n. 6874/2011 cit.).

Per essere qualificato sostanzialmente espropriativo, il vincolo deve insomma comportare «l’azzeramento del contenuto economico del diritto di proprietà», al contrario «la disciplina urbanistica che ammette la realizzazione di interventi edilizi da parte di privati, seppur conformati dal perseguimento del peculiare interesse pubblico che ha determinato il vincolo, non si risolve in una sostanziale espropriazione, ma solo in una limitazione, conforme ai principi che presiedono al corretto ed ordinario esercizio del potere pianificatorio, dell’attività edilizia realizzabile sul terreno» (così Consiglio di Stato, Sez. IV, 28 febbraio 2005 n. 693).

4.3. Non sono espropriativi, e l’apposizione di essi non determina la corresponsione di indennizzi, i limiti e i modi di utilizzazione della proprietà privata che siano imposti dalla legge o dagli strumenti urbanistici e che abbiano carattere di generalità per tutti i consociati, riguardando in modo obiettivo intere categorie di beni e interessando perciò «la generalità dei soggetti con una sottoposizione indifferenziata di essi – anche per zone territoriali – ad un particolare regime secondo le caratteristiche intrinseche del bene stesso» (Corte Costituzionale sent. n. 179/1999). In queste ipotesi precisa la Corte Costituzionale «non si può porre un problema di indennizzo se il vincolo, previsto in base a legge, abbia riguardo ai modi di godimento dei beni in generale o di intere categorie di beni, ovvero quando la legge stessa regoli la relazione che i beni abbiano rispetto ad altri beni o interessi pubblici preminenti. Devono di conseguenza essere considerati come normali e connaturali alla proprietà, quale risulta dal sistema vigente, i limiti non ablatori posti normalmente nei regolamenti edilizi o nella pianificazione e programmazione urbanistica e relative norme tecniche, quali i limiti di altezza, di cubatura o di superficie coperta, le distanze tra edifici, le zone di rispetto in relazione a talune opere pubbliche, i diversi indici generali di fabbricabilità ovvero i limiti e rapporti previsti per zone territoriali omogenee e simili» (sent. n. 179/1999 cit. ; v. altresì Cons. St., Sez. IV, 7 novembre 2012,  n. 5667 nella quale viene osservato che «la zonizzazione del territorio, con i vincoli di generalità e in modo obiettivo su intere categorie di beni, è connaturata normalmente alla pianificazione urbanistica, per cui non può essere ex se considerata di natura ablatoria. La possibilità che il diritto di proprietà subisca alcune limitazioni in ragione dell’interesse pubblico costituisce d’altronde un rischio fisiologico connesso al diritto stesso secondo il giudice delle leggi»).

4.4. La giurisprudenza è costante nel ritenere che sono al di fuori dello schema ablatorio-espropriativo, con la conseguenza che possono avere durata indeterminata senza bisogno di alcun indennizzo, quei vincoli che – come ricordato dalla Corte Costituzionale – «importano una destinazione (anche di contenuto specifico) realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, che non comportino necessariamente espropriazione o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica e quindi siano attuabili anche dal soggetto privato e senza necessità di previa ablazione del bene. Ciò può essere il risultato di una scelta di politica programmatoria tutte le volte che gli obiettivi di interesse generale, di dotare il territorio di attrezzature e servizi, siano ritenuti realizzabili (e come tali specificatamente compresi nelle previsioni pianificatorie) anche attraverso l’iniziativa economica privata – pur se accompagnati da strumenti di convenzionamento» (sent. n. 179/1999; nello stesso senso v. altresì Cons. St., Sez. IV, 7 novembre 2012,  n. 5667).

Sono tradizionalmente ascritte tra le destinazioni conformative quelle a parcheggio, a impianti sportivi, a mercato, a complessi per la distribuzione commerciale, a iniziative di cura e sanitarie o per altre utilizzazioni quali zone artigianali o industriali o residenziali, in breve – come osservato dalla Corte Costituzionale – «a tutte quelle iniziative suscettibili di operare in libero regime di economia di mercato» (Corte Cost. sent. n. 179/1999).

Sono inoltre esclusi dal novero dei vincoli espropriativi quelli paesistico-ambientali, “in virtù della loro localizzazione o della loro inserzione in un complesso che ha in modo coessenziale le qualità indicate dalla legge” (sentenze n. 417 del 1995; n. 56 del 1968, da interpretarsi in maniera unitaria con la coeva sentenza n. 55 del 1968, n. 9 del 1973; n. 202 del 1974; n. 245 del 1976; n. 648 del 1988; n. 391 del 1989; n. 344 del 1990).

Tra tali ipotesi sono altresì ricompresi il vincolo di inedificabilità (c.d. di rispetto) a tutela di una strada esistente, il vincolo di verde attrezzato, il vincolo di inedificabilità per un parco e per una zona agricola di pregio, la destinazione a verde etc. (tra tante, Consiglio di Stato, IV, 23 dicembre 2010, n. 9372; Id. 7 novembre 2012,  n. 5667).

4.5. Con specifico riferimento alla destinazione a zona verde pubblico, viene generalmente affermato che la previsione di tale tipologia «non configura un vincolo preordinato ad esproprio né una inedificabilità assoluta, in quanto si tratta di prescrizione normalmente diretta a regolare concretamente l’attività edilizia, che attiene ad una potestà conformativa propria dello strumento urbanistico generale, la cui validità è a tempo indeterminato, come stabilito dall’art. 11 l.17 agosto 1942, n. 1150» (Cons. St., Sez. IV, 7 novembre 2012, n. 5667; Id., 10 giugno 2010, n. 3700). Di talché hanno natura tipicamente conformativa le previsioni urbanistiche che consentano l’intervento diretto dei privati per il verde (cfr. Cons. St., Sez. IV, 13 luglio 2011, n. 4242; Id. 19 gennaio 2012, n. 244; Id. sent. n. 5667/2012 cit.).

È stato così osservato, con riferimento a destinazione a verde sportivo, che non sono espropriative la previsione urbanistica che preveda la realizzazione, anche da parte di privati in regime di economia di mercato, di attrezzature destinate all’uso pubblico, nonché quella che stabilisca che le aree a verde per lo sport siano destinate oltre che a parchi urbani, a campi ed attrezzature per il gioco e per lo sport, comprese le palestre, le piscine e i campi coperti (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 28 febbraio 2005 n. 693, nonché Id., 27 dicembre 2011,  n. 6874). In queste ipotesi – osserva il Giudice Amministrativo – i contenuti degli strumenti urbanistici generali consentono «espresse funzionalizzazioni dell’area in ragione del suo sfruttamento economico, compatibilmente con la tutela del territorio. Si verte quindi in questioni di carattere conformativo della zona, e non di carattere espropriativo» (Cons. St., Sez. IV, sent. n. 6874/2011 cit.).

5. Sull’orientamento secondo cui è impositiva di vincolo espropriativo la destinazione che, al fine di servire un interesse pubblico, non consenta la realizzazione di opus suscettibile di essere posto sul mercato, indipendentemente dal fatto che il medesimo opus possa essere realizzato dal privato.

5.1. Come ricordato supra, assurge a criterio identificativo della natura conformativa dei vincoli di zona la circostanza che una destinazione (anche di contenuto specifico) sia realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata (cfr. Cons. St., Sez. IV, sent. n. 5667/2012 cit.).

Secondo la più attenta giurisprudenza amministrativa, tale criterio non può tuttavia ritenersi sufficiente al fine di riconoscere natura conformativa e non espropriativa dei vincoli di zona.

Posto che nella sentenza n. 179/1999 della Corte Costituzionale viene affermato che non si è alla presenza di uno schema ablatorio tutte le volte in cui le “iniziative (siano) suscettibili di operare in regime di libero mercato”, ciò che rileva secondo il medesimo orientamento del Giudice Amministrativo non è tanto la realizzabilità dell’opera o del servizio esclusivamente per opera della mano pubblica o anche del privato (cui va assimilato l’intervento misto), bensì la destinazione dell’opus e quindi alla sua idoneità a soddisfare anche il diritto soggettivo di proprietà, oltre che l’interesse pubblico (cfr. C.G.A., Sez. I, 19 dicembre 2008,  n. 1113).

Soltanto nell’ipotesi in cui l’opus da realizzare soddisfi sì l’interesse pubblico, ma possa essere realizzato dal privato per essere posto sul mercato, inteso quale incontro tra domanda ed offerta in scarsità di risorse, si potrà allora parlare di destinazione conformativa e non espropriativa (cfr. C.G.A., Sez. I, sent. n. 1113/2008 cit.).

In altri termini, i limiti allo jus aedificandi sono conformativi fintantoché siano compatibili con lo sfruttamento economico e commerciale delle aree private.

Ciò in quanto – osserva sempre il Consiglio di Giustizia Amministrativa – «la proprietà privata, ai sensi dell’articolo 42 della Costituzione e della CEDU, costituisce diritto fondamentale dell’uomo. Come è noto, il contenuto, e quindi le facoltà, inerenti al detto diritto sono le più ampie previste dall’ordinamento giuridico (italiano ed europeo ed in genere occidentale), e si sostanziano nella utilizzazione a fini economici del bene, segnatamente del bene immobile e, nella specie, di area non ancora edificata. L’utilizzazione naturale di tali aree, quindi, è l’edificabilità, cioè la realizzazione di un opus suscettibile di valutazione economica, sia per la fruizione personale del proprietario, sia per la disposizione onerosa a favore di terzi» (C.G.A., Sez. I, sent. n. 1113/2008).

Ne consegue – per l’indirizzo in esame – che, nella distinzione tra norme conformative e norme ablatorie, occorre avere riguardo «al tasso di deviazione dalla finalità ordinaria della area in questione rispetto alla sua vocazione naturale, che è sicuramente quella di dare luogo ad un opus economicamente e commercialmente idoneo a procurare il massimo profitto al proprietario» (C.G.A., Sez. I, sent. n. 1113/2008).

Da qui l’inferenza secondo cui è conformativa la norma che imponga standard di distanze, cubatura, altezza, tipologia etc., poiché si inserisce «in un mercato immobiliare omogeneo, stabilendo restrizioni uguali per gli appartenenti alla classe (proprietari della zona omogenea) e determinando, quindi, i parametri di mercato (valore dell’immobile realizzabile e quindi dell’area edificabile) in relazione alle restrizioni omogenee. Si tratta, nel mercato che si crea, di vincoli economici esterni, accettabili e compatibili con l’economia di mercato e con i principi di uguaglianza, nella misura in cui operino, sostanzialmente, come limiti esterni allo jus aedificandi» (C.G.A., Sez. I,  n. 1113/2008). In questo caso non si ha una restrizione del diritto di proprietà ed allo jus aedificandi, operando l’obbligo conformativo che discende dagli strumenti urbanistici «quale limite generale, quasi naturale, alle facoltà della classe di aree insistenti in zona omogenea» (C.G.A., Sez. I,  n. 1113/2008). L’interesse pubblico, quindi, osserva sempre il Consiglio di Giustizia Amministrativa, «opera ab extrinseco non incidendo sul diritto di proprietà, ma sulla sua valorizzazione di mercato, a fronte di un potere conformativo, eccezionale ma accettabile, riconosciuto per il bene della collettività» (C.G.A., Sez. I,  n. 1113/2008).

Sempre da qui l’ulteriore inferenza secondo cui ha invece carattere espropriativo la destinazione impressa dagli strumenti urbanistici alla proprietà privata che individui la destinazione indefettibile ad opera o servizio pubblico. Detta destinazione «individua, necessariamente e senza possibilità di eccezione, il soggetto (pubblico) cui l’opera stessa non potrà che essere destinata. In tal guisa che l’opera non è finalizzata ad essere posta sul mercato, ma necessariamente ad esser posta a disposizione di un solo soggetto» (C.G.A., Sez. I,  n. 1113/2008).

In quest’ultima ipotesi, quand’anche l’opus possa essere realizzato ad iniziativa privata, il destinatario della sua utilizzazione sarà comunque la parte pubblica; cosicché dovrà escludersi che l’opera possa essere posta sul mercato, non essendovi mercato «quando uno dei contraenti si pone in posizione di monopolio (nel caso monopolista per l’acquisto)» (C.G.A., Sez. I,  n. 1113/2008).

In questa prospettiva debbono, in conclusione, ritenersi di natura espropriativa le destinazioni di zona intese ad asservire aree private allo scopo di realizzare gli standard urbanistici, proprio in virtù del fatto che sulle medesime aree «non può che essere realizzata altro che l’opera in questione asservita ad un interesse pubblico e riferita all’ente pubblico» (C.G.A., Sez. I,  n. 1113/2008). Sussiste pertanto un vincolo preordinato alla espropriazione tutte le volte in cui «la destinazione della area permetta la realizzazione di opere destinate esclusivamente alla fruizione soggettivamente pubblica, nel senso di riferita esclusivamente all’ente esponenziale della collettività territoriale. E pertanto nel caso (per quanto qui di interesse) di parcheggi pubblici, strade e spazi pubblici, spazi pubblici attrezzati, parco urbano, attrezzature pubbliche per l’istru-zione. In tali casi, evidentemente, l’utilizzatore finale dell’opera non può che essere l’ente pubblico di riferimento ed essa, in nessun caso, può essere posta sul mercato per soddisfare una domanda differenziata che, semplicemente, non esiste» (C.G.A., Sez. I,  n. 1113/2008).

5.2. Con riferimento ai parcheggi occorre pertanto distinguere tra i parcheggi pubblici e quelli privati. Soltanto i secondi rientrano tra le destinazioni conformative, consentendo al titolare dell’area sottoposta al medesimo vincolo di realizzare un opus suscettibile di essere posto sul mercato. Nel caso invece di parcheggi pubblici, indipendentemente dal fatto che essi siano realizzati da privati e che siano destinati alla concessione a tariffa c.d. calda, «l’erogazione del servizio pubblico è pur sempre riservata all’Ente territoriale, il quale, appunto, la esercita mediante la concessione dei propri poteri, sia pure assicurando l’introito della tariffa» (C.G.A., Sez. I, sent. n. 1113/2008).

Tale indirizzo è stato recentissimamente confermato dal T.A.R. Campania Salerno, Sez. II, 15 luglio 2013, n. 1538, con riferimento a strumenti urbanistici intesi a realizzare un’opera pubblica (parcheggio pubblico), destinata «alla fruizione soggettivamente pubblica in quanto riferita esclusivamente all’ente esponenziale della collettività territoriale per averla quest’ultimo inserita nella programmazione triennale delle opere pubbliche di cui all’art. 128 del d. lgs n. 163/2006, che, necessariamente richiama, quale elemento indefettibile per il suo inserimento, anche il rispetto della normativa urbanistica» (T.A.R. Campania Salerno, Sez. II, sent. n. 1538/2013 cit.).

nota a cura dell’Avv. Ettore Nesi