La disciplina degli orari degli esercizi commerciali a quasi un anno dalla liberalizzazione

di Ettore Nesi (articolo pubblicato sul numero n. 9/2012 della Rivista NEL DIRITTO)

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ABSTRACT – Con il c.d. Decreto “salva-Italia” è stata liberalizzata la disciplina degli orari di apertura e di chiusura degli esercizi di vendita.

La disposizione liberalizzatrice di fonte statale pone molteplici questioni circa il rapporto con la normativa regionale in tema di commercio, nonché circa la sopravvivenza del potere di coordinamento, in tema di orari, che l’art. 50, comma 7, TUEL tuttora riconosce ai Comuni.

In attesa che sulla legittimità di tale disposizione si pronunci la Corte Costituzionale, ad un anno dell’entrata in vigore di essa possono comunque delinearsi i confini dell’ambito applicativo dell’art. 31 D.L. n. 201/2011 conv. in l. n. 214/2011 alla luce delle più recenti indicazioni provenienti dalla giurisprudenza amministrativa.

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Sull’argomento v.:

– Corte Costituzionale, sentenza 19 dicembre 2012, n. 199,  sulla eliminazione dei limiti agli orari e ai giorni di apertura al pubblico degli esercizi commerciali, di cui all’articolo 31, commi 1 e 2, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici);

– T.A.R. Toscana, Sez. II, 28 marzo 2012, n. 629, sulle ordinanze sindacali disciplinanti l’apertura e la chiusura di esercizi commerciali

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SOMMARIO

1.- Introduzione: la disciplina degli orari degli esercizi commerciali nel quadro della regolazione protezionistica in materia di commercio. 2.- (segue): la compatibilità della disciplina regolatoria degli orari con i principi in tema di libera circolazione delle merci desumibili dall’art. 30 TCE (ora art. 36 TFUE). 3.- La riforma del 1998. 4.- (segue): in particolare, l’art. 13 D.Lgs. n. 114/1998. 5. – La liberalizzazione del 2011. 6. – Rapporti tra legislazione statale e regionale. 6.1. – (segue): orari degli esercizi commerciali nella giurisprudenza della Corte Costituzionale. Ascrivibilità delle disposizioni di liberalizzazione degli orari tra quelle pro-concorrenziali. 6.2. – Conseguenze della liberalizzazione ex art. 31 D.L. n. 201/2011 conv. in l. n. 214/2011 sulla previgente disciplina regionale. 7. – Sul potere di coordinamento dei Comuni in tema di orari.

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1. Introduzione: la disciplina degli orari degli esercizi commerciali nel quadro della regolazione protezionistica in materia di commercio.

Ad un anno dall’avvio del processo di liberalizzazione degli orari di apertura e di chiusura delle attività commerciali sembra utile compiere alcune riflessioni in attesa che la Corte Costituzionale si pronunci sulla legittimità delle relative disposizioni.

Nel rapido volgere di un decennio da una disciplina rigidamente regolatoria si è passati ad una vera e propria deregulation nel quadro della politica di liberalizzazione della c.d. Direttiva Servizi (anche detta Bolkestein), la Direttiva 12 dicembre 2006, 06/123/CE, attuata con D.Lgs. 26 marzo 2010, n. 59, la quale ha stabilito «le disposizioni generali che permettono di agevolare l’esercizio della libertà di stabilimento dei prestatori nonché la libera circolazione dei servizi, assicurando nel contempo un elevato livello di qualità dei servizi stessi» (così l’art. 1 della Direttiva 06/123/CE).

Il legislatore interno ha così colto le spinte pro-concorrenziali dell’ordinamento europeo quale occasione per innovare il diritto positivo nazionale, il quale, ancora sul finire degli anni Novanta, restava ispirato da inveterate esigenze protezionistiche.

A partire dagli anni Venti del secolo scorso, infatti, la libertà di iniziativa economica nel settore del commercio venne limitata al dichiarato fine di regolare il mercato e i prezzi al consumo[1].

Nell’Ordinamento repubblicano tale disciplina superò il vaglio di legittimità della Corte Costituzionale, la quale ricavò dal comma 2° dell’art. 41 Cost. (in base al quale l’iniziativa economica privata “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana“) il principio secondo cui quella di intrapresa fosse sì una libertà fondamentale, che però non avrebbe escluso l’intervento del legislatore ordinario, «e ciò affinché siano appunto realizzate nel miglior modo le finalità stesse di quella norma costituzionale. Le quali vanno considerate insieme, coordinate tra loro, in modo tale che la libertà della iniziativa economica privata, dichiarata nel primo comma dell’art. 41, si svolga in armonia con le altre fondamentali esigenze espresse nei commi secondo e terzo dello stesso articolo, vale a dire che da un lato essa non deve trovarsi in contrasto con l’utilità sociale né recar danno alla sicurezza alla libertà e alla dignità umana, e, dall’altro, dev’essere, insieme all’attività economica pubblica, indirizzata e coordinata ai fini sociali, mercè gli opportuni programmi e controlli determina dalla legge» (Corte Costituzionale, 18 maggio 1959, n. 32).

L’ordinamento del commercio, definito dalla legge 11 giugno 1971, n. 426, era ispirato al principio di programmazione dell’apertura degli esercizi commerciali, nonché dalla previsione di molteplici limiti all’avvio e all’esercizio delle attività commerciali. Gli operatori del settore, sia che avessero voluto entrare nel mercato rilevante sia che avessero voluto continuare a competervi, incontravano nella legislazione statale vincoli e barriere sia sotto il profilo soggettivo che sotto quello oggettivo.

Tale disciplina, è stato osservato dalla Corte Costituzionale, «anche per il coinvolgimento nella pianificazione degli operatori commerciali, era caratterizzata da profili protezionistici, benché finalità della legge n. 426 del 1971 fosse anche quella di “assicurare la migliore funzionalità del servizio” ed “il rispetto della libera concorrenza” (artt. 11 e 12), scopi peraltro condizionati dalla circostanza che le norme erano dirette anche a proteggere e garantire gli interessi degli imprenditori già presenti sul mercato» (Corte Costituzionale 14 dicembre 2007, n. 430).

In tale contesto, anche la disciplina degli orari e del riposo dei negozi e degli esercizi di vendita era ispirata a rigidi criteri regolatori.

Sino al 1971, la regolazione degli orari fu quella dettata dalla legge 16 giugno 1932, n. 973, il quale attribuiva al Prefetto, previo parere delle organizzazioni di categoria dei lavoratori e degli esercenti, il potere di determinare con proprio decreto:

– l’orario di apertura e chiusura nei giorni feriali;

– i giorni di chiusura totale o parziale, oltre le domeniche;

– il giorno di riposo compensativo, nelle ipotesi in cui fosse stato consentito, temporaneamente o in via permanente, il lavoro nel giorno della domenica.

La disciplina degli orari di apertura e di chiusura delle attività commerciali (negozi e esercizi di vendita al dettaglio) venne poi parzialmente innovata dalla legge 28 luglio 1971, n. 558, il cui art. 1 delegava le Regioni, ai sensi dell’originario art. 118, comma 2, Costituzione, a determinare l’orario di apertura e di chiusura, tenendo conto sia delle esigenze dei consumatori, sia delle esigenze di riposo delle categorie dei lavoratori e degli esercenti, previo parere di Comuni, Camere di Commercio[2].

L’art. 1 della medesima legge indicava dei criteri a cui le Regioni avrebbero dovuto uniformarsi nella determinazione dell’orario:

a) chiusura totale nei giorni domenicali e festivi[3];

b) l’orario complessivo settimanale non avrebbe dovuto superare le 44 ore di apertura;

c) chiusura infrasettimanale obbligatoria di mezza giornata[4];

d) facoltà di apertura antimeridiana, limitatamente ai negozi del settore dell’alimentazione, nel caso di più festività consecutive al fine di garantire il servizio di rifornimento al pubblico.

La legge n. 558/1971 consentiva inoltre che l’orario di apertura e chiusura potesse essere differenziato per località o per zone e per settori merceologici, ove però ne fosse stata dimostrata l’effettiva necessità (cfr. art. 1).

Con riferimento alle località turistiche, l’art. 4 della legge n. 558/1971 dettava un regime derogatorio, inteso a consentire l’orario di apertura e chiusura dei negozi sia nei giorni feriali, sia in quelli domenicali e festivi, temporalmente limitato ai periodi di maggiore afflusso turistico, previo parere di Enti di promozione turistica, Comuni, Camere di Commercio e degli altri soggetti rappresentativi delle categorie coinvolte (esercenti, lavoratori etc.)[5].

Come precisato all’art. 5 del l. n. 558/1971, la normativa settoriale andava intesa come limitativa della libertà imprenditoriale di stabilire gli orari di esercizio dell’attività commerciale, ma non come impositiva dell’obbligo di apertura.

L’art. 54, comma 1°, lett. d), d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 attribuì ai Comuni le funzioni amministrative alla fissazione, sulla base dei criteri stabiliti dalla regione, degli orari di apertura e chiusura dei negozi, dei pubblici esercizi di vendita e consumo di alimenti e bevande, nonché degli impianti stradali di distribuzione dei carburanti.

Con il D.L. 1 ottobre 1982, n. 697 conv. in legge 29 novembre 1982, n. 887, venne riconosciuto ai sindaci il potere di fissare i limiti giornalieri degli orari di vendita al dettaglio, anche differenziati per settori merceologici indicando l’ora di apertura antimeridiana non oltre le ore 9 e l’ora di chiusura serale non oltre le ore 20; venendo ribadito che, all’interno di tale fascia oraria, l’operatore commerciale avrebbe avuto facoltà di scelta circa l’orario di apertura e di chiusura[6].

Con riferimento alle attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande[7], l’art. 8 (“Orario di attività”) della L. n. 287/1991 stabilì che «il sindaco, sentite le associazioni di categoria maggiormente rappresentative e l’azienda di promozione turistica nonché le associazioni dei consumatori e degli utenti maggiormente rappresentative a livello nazionale, determina l’orario minimo e massimo di attività».

Come osservato dalla AGCM nella relazione “Regolamentazione della distribuzione commerciale e concorrenza” del gennaio 1993[8], agli inizi degli anni Novanta la normativa italiana in tema di orari di vendita si situava a «livello intermedio tra le normative europee in termini di vincoli al funzionamento del mercato, risultando più liberale della normativa tedesca e più restrittiva delle normative francese, britannica e spagnola».

Osservava tuttavia l’AGCM come l’orario di apertura dei negozi costituisse «una delle dimensioni, oltre al prezzo e alle caratteristiche del servizio, rispetto alle quali può realizzarsi una concorrenza tra gli esercenti». Cosicché, attraverso misure di liberalizzazione si sarebbero potute «accrescere le possibilità di concorrenza nel settore, con rilevanti benefici per i consumatori».

2. (segue): la compatibilità della disciplina regolatoria degli orari con i principi in tema di libera circolazione delle merci desumibili dall’art. 30 TCE (ora art. 36 TFUE).

Nell’ambito dell’Unione europea la Corte di Giustizia è stata costante nell’affermare la piena legittimità delle discipline interne relative alla regolazione degli orari commerciali rispetto al principio di libera circolazione delle merci.

Nella sentenza della Corte di Giustizia CE, Sez. V, 20 giugno 1996, in C-418/93 viene infatti osservato che «l’art. 30 del Trattato va interpretato nel senso che non si applica ad una normativa nazionale sull’orario di apertura dei pubblici esercizi che vale per tutti gli operatori economici che svolgono attività sul territorio nazionale e che incide allo stesso modo, in diritto e in fatto, sulla vendita dei prodotti nazionali e su quella dei prodotti provenienti da altri Stati membri». Ciò in quanto, osserva il medesimo indirizzo, «le discipline nazionali che limitano l’apertura domenicale di esercizi commerciali costituiscono l’espressione di determinate scelte, rispondenti alle peculiarità socio-culturali nazionali o regionali. Spetta agli Stati membri effettuare queste scelte attenendosi alle prescrizioni del diritto comunitario» (Corte di Giustizia CE, sent. in C-418/93 cit.).

3. La riforma del 1998.

In attuazione della delega di cui all’art. 4, comma 4°, lettera c), legge 15 marzo 1997, n. 59[9], venne emanato il Decreto legislativo n. 114 del 31 marzo 1998, il quale intese perseguire, tra le altre, le seguenti finalità:

«a) la trasparenza del mercato, la concorrenza, la libertà di impresa e la libera circolazione delle merci;

b) la tutela del consumatore, con particolare riguardo all’informazione, alla possibilità di approvvigionamento, al servizio di prossimità, all’assortimento e alla sicurezza dei prodotti» (art. 1, comma 3, D.Lgs. n. 114/1998).

All’art. 2 D.Lgs. n. 114/1998 viene ribadito che «l’attività commerciale si fonda sul principio della libertà di iniziativa economica privata ai sensi dell’articolo 41 della Costituzione ed è esercitata nel rispetto dei princìpi contenuti nella legge 10 ottobre 1990, n. 287, recante norme per la tutela della concorrenza e del mercato»; a conferma quindi che la regolazione delle attività commerciali, così come per quella imprenditoriale, fosse indispensabile al fine di garantire che l’iniziativa economica non si svolgesse “in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (art. 41 Cost.).

Il comma 1° dell’art. 11 del D.Lgs. n. 114/1998 attribuisce ai titolari di esercizi di vendita al dettaglio la libertà di determinare gli orari di apertura e di chiusura al pubblico, nel rispetto tuttavia delle disposizioni dettate in via generale dal medesimo Decreto e dei criteri emanati dai comuni, in ossequio a quanto ora disposto dall’art. 50, comma 7°, TUEL.

In base al medesimo Decreto la libertà degli esercenti di restare aperti al pubblico può essere esercitata tra le ore 7 e le ore 22 nei giorni feriali, con un limite massimo di apertura giornaliera di 13 ore e con l’obbligo di osservare la chiusura domenicale e festiva e, nei casi previsti dai comuni, la mezza giornata di chiusura infrasettimanale (cfr. art. 11, commi 2 e 4[10]).

Il comma 5° dell’art. 11 conferisce ai Comuni la facoltà di individuare, previo parere delle organizzazioni di categoria e dei consumatori, giorni e zone del territorio nei quali gli esercenti possono derogare all’obbligo di chiusura domenicale e festiva, venendo stabilito che tale facoltà venga prevista nel mese di dicembre e almeno 8 domeniche o festività nel corso degli altri mesi dell’anno. Invero, secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato, il comma 5° non detterebbe una disposizione immediatamente precettiva, essendo indefettibile l’attuazione di essa mediante regolamentari comunali[11].

L’art. 12 conferma la specialità del regime degli orari nei comuni ad economia prevalentemente turistica, nonché nelle città d’arte e nei loro territori, già affermata dalla previgente legislazione[12]. Per essi viene infatti prevista la libertà degli esercenti di determinare gli orari dei propri negozi anche in deroga agli obblighi di chiusura nei giorni festivi e di riposo infrasettimanale di cui al comma 4° del precedente art. 11.

Il comma 2° dell’art. 12 conferma il potere di coordinamento dei comuni ex art. 50, comma 7, TUEL (art. 36, comma 3, l. n. 142/1990), venendo previsto che, nei periodi di maggiore afflusso turistico, le organizzazioni rappresentative delle categorie coinvolte (esercenti, lavoratori, consumatori) possano definire accordi con i Comuni per assicurare all’utenza idonei livelli di servizio e di informazione.

4. (segue): in particolare, l’art. 13 D.Lgs. n. 114/1998.

L’art. 13 del D.Lgs. n. 114/1998 esonera dall’applicazione del titolo IV alcune tipologie di attività, in virtù della tipologia dei beni oggetto di rivendita (ad es. generi di monopolio; giornali; gelaterie; gastronomie, rosticcerie, pasticcerie; bevande; fiori; mobili; supporti di ogni tipo di video e musica; souvenir etc.), o dei luoghi in cui tali attività sono aperte (villaggi turistici; strutture turistico-ricettive; aree di servizio pertinenziali ad infrastrutture stradali, portuali e aeroportuali; sale cinematrografiche etc.).

Secondo un primo indirizzo l’art. 13 esonererebbe le attività ivi elencate dall’osservanza della disciplina degli orari di chiusura ed apertura.

In difetto della cornice normativa verrebbe meno anche il potere dei Comuni di regolare tali settori.

L’art. 13 non avrebbe cioè comportato la delegificazione della disciplina settoriale lasciando libero il campo al potere regolamentare dei Comuni.

Una tale interpretazione confliggerebbe, infatti, con il principio della libertà di intrapresa economica di cui all’art. 41 Cost.

Cosicché l’art. 13 D.Lgs. n. 114/1998 dovrebbe perciò interpretarsi nel senso che rimetta a ciascun operatore la determinazione degli orari di apertura e chiusura delle proprie attività.

Ciò sarebbe del resto giustificato dalla natura delle medesime attività.

Come osservato in giurisprudenza «le ragioni dell’esclusione di tali varie tipologie di attività commerciali risiedono o nella peculiarità di ognuna di esse (rivendite di generi di monopolio e di giornali, pasticcerie gelaterie gastronomie e rosticcerie) o, nella particolarità del luogo in cui esse vengono esercitate (aree di servizio lungo le autostrade, stazioni ferroviarie marittime e aeroportuali, vendite all’interno di campeggi e complessi turistici ed alberghieri» (T.A.R. Emilia-Romagna, Parma, Sez. I, 7.4.2005, n. 203).

Occorre inoltre considerare che tali attività sono accomunate dall’offrire al pubblico prodotti ai quali corrisponde una domanda di consumo che può coprire l’intero arco delle 24 ore, senza distinzione tra giorni festivi e feriali (si pensi a quanti si rechino nelle rosticcerie di domenica ovvero nelle pasticcerie nel cuore della notte o all’alba per consumare un pasto al rientro da lavoro o prima di recarvisi, si pensi a quanti comprino fiori nei giorni festivi o scelgano di vedere un home video in orario notturno etc.).

In applicazione di tali principi il Consiglio di Stato ha perciò annullato, per violazione dell’art. 13 D.Lgs. n. 114/1998, un’ordinanza sindacale intesa a imporre limitazioni orarie ad esercizi commerciali che l’art. 13 cit. sottrae invece a limiti orari (cfr. Cons. St., Sez. V, 21 agosto 2009, n. 5017), escludendo espressamente che l’esercizio di tale potere nei riguardi di siffatte attività possa essere giustificato in virtù dell’art. 50, comma 7°, TUEL[13].

5. La liberalizzazione del 2011.

La Riforma del 1998, nonostante l’intento liberalizzatore della nuova disciplina, conferma la necessità che gli orari di apertura e chiusura degli esercizi commerciali vengano disciplinati dettagliatamente.

Tale impianto normativo venne (per implicito) confermato dal primo dei c.d. Decreti Bersani[14], il cui articolo 3, nel dettare molteplici disposizioni pro-concorrenza, non andò ad intaccare la disciplina sugli orari del suddetto D.Lgs. n. 114/1998.

Nel corso del 2011, nel quadro delle riforme sistemiche anticrisi, dapprima l’art. 35, comma 6, D.L. 6 luglio 2011, n. 98 conv. in legge 15 luglio 2011, n. 111 introdusse la lettera d-bis) al comma 1° dell’art. 3 D.L. n. 223/2006, conv. in legge n. 248/2006 intesa a liberalizzare, «in via sperimentale», gli orari di apertura e chiusura degli esercizi di vendita al dettaglio situati in località turistiche o città d’arte[15]; poi con il D.L. 6 dicembre 2011, n. 201 conv. in legge 22 dicembre 2011, n. 214 l’orario di apertura e chiusura degli esercizi commerciali venne liberalizzato senza riserve[16].

All’esito dei due interventi normativi del luglio-dicembre 2011 il nuovo comma 1, lettera d-bis), dell’art. 3 del D.L. n. 223/2006, conv. in legge n. 248/2006, nella versione oggi in vigore, stabilisce che «le attività commerciali, come individuate dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, e di somministrazione di alimenti e bevande sono svolte senza i seguenti limiti e prescrizioni: […] d-bis) il rispetto degli orari di apertura e di chiusura, l’obbligo della chiusura domenicale e festiva, nonché quello della mezza giornata di chiusura infrasettimanale dell’esercizio».

La nuova lettera d-bis) del comma 1° del citato art. 3 D.L. n. 223/2006, conv. in legge n. 248/2006 aggiunge pertanto all’elenco degli ambiti normativi, per i quali è espressamente escluso che lo svolgimento di attività commerciali possa incontrare limiti e prescrizioni, anche la disciplina degli orari e della chiusura domenicale o festiva di tutti gli esercizi e di tutte le attività commerciali come individuate dal D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 114. Con la conseguenza che «la modificata normativa statale prevede che tali attività commerciali non possano più incontrare limiti o prescrizioni relativi agli orari di apertura e chiusura e alle giornate di chiusura obbligatoria» (cfr. Corte Costituzionale ord. n. 59 del 19 marzo 2012).

A seguito delle recenti novità normative introdotte dal legislatore statale nel quadro, come detto, delle misure anticrisi pro crescita, due sono i profili di indagine di maggiore interesse.

Il primo è il rapporto tra normativa statale e quella regionale, tenuto conto che la disciplina degli orari delle attività commerciali interferisce con due materie, concorrenza e commercio, la prima delle quali è attribuita alla competenza esclusiva dello Stato (art. 117, comma 2, lett. e) Cost.), mentre la seconda è attribuita a quella residuale (e quindi esclusiva) delle Regioni (art. 117, comma 3, Cost.).

Il secondo campo di indagine è invece lo spazio che residua al potere di coordinamento che la legislazione statale riserva ai Comuni ex art. 50, comma 7, TUEL (già art. 36, comma 3, l. n. 142/1990).

6. Rapporti tra legislazione statale e regionale.

A seguito della Riforma del Titolo V della Costituzione[17] è mutato l’ordine dei rapporti tra legislazione statale e legislazione regionale, «nel senso che la potestà legislativa dello Stato sussiste solo ove dalla Costituzione sia ricavabile un preciso titolo di legittimazione» (Corte Costituzionale, 13 gennaio 2004, n. 1).

Da ciò la costante giurisprudenza costituzionale ha ricavato che la materia del commercio appartiene alla competenza residuale e quindi esclusiva delle Regioni, non essendo ricompresa né nell’elencazione delle materie riservate alla competenza legislativa esclusiva dello Stato (comma 2° dell’art. 117 Cost.), né nell’elencazione delle materie di legislazione concorrente (comma 3° dell’art. 117 Cost.)[18].

Con la conseguenza che il D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 114 detta norme cedevoli applicabili soltanto nel caso in cui nella medesima materia le Regioni non abbiano dettato una normativa specifica, alla stregua di quanto previsto dall’art. 1, comma 2, della legge 5 giugno 2003, n. 131[19].

Nondimeno, la materia del commercio subisce l’influenza della legislazione statale in tema di tutela della concorrenza (comma 2° lettera e) dell’art. 117 Cost.).

La tutela della concorrenza ha infatti per oggetto «la disciplina dei mercati di riferimento di attività economiche molteplici e diverse» (sent. n. 430/2007 cit.); cosicché è opinione unanime che tale materia sia di natura trasversale[20].

Al contempo il formante costituzionale è costante nell’affermare che la riserva allo Stato della competenza trasversale de qua sia «in sintonia con l’ampliamento delle attribuzioni regionali disposto dalla revisione del titolo V della parte seconda della Costituzione»[21]. Occorre cioè che l’intervento del legislatore statale sia contenuto «entro i limiti dei canoni di adeguatezza e proporzionalità»[22].

Al fine di identificare la materia nella quale collocare una norma occorre pertanto fare riferimento «all’oggetto ed alla disciplina stabilita dalla medesima, tenendo conto della sua ratio, tralasciando gli aspetti marginali e gli effetti riflessi, così da identificare correttamente e compiutamente anche l’interesse tutelato»[23].

Rientrano nell’ambito delle misure normative di tutela della concorrenza sia quelle dirette a regolare l’assetto concorrenziale dei mercati, incidendo sul comportamento degli operatori (misure legislative di tutela in senso proprio, c.d. antitrust), sia quelle di promozione della concorrenza[24].

Ne consegue che, secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale, interventi normativi che non fossero diretti a regolare il comportamento degli operatori sul mercato ovvero a promuovere la concorrenza non sarebbero qualificabili come norme a tutela della concorrenza ex art. 117, comma 2°, lettera e) Costituzione[25].

Quando invece le norme statali siano effettivamente indirizzate a garantire ovvero a promuovere la concorrenza nei mercati rilevanti di riferimento, eliminando barriere all’accesso al mercato e alla libera esplicazione della capacità imprenditoriale, è allora consentito allo Stato dettare anche disposizioni di dettaglio (cfr. Corte Costituzionale sent. n. 430/2007 cit.), ferma restando l’osservanza del principio di proporzionalità e adeguatezza (cfr. Corte Costituzionale 15 maggio 2004, n. 345).

Deve peraltro ritenersi ammesso che le Regioni, in coerenza con la ratio e le finalità perseguite dallo Stato, possano dettare, nell’ambito delle proprie competenze legislative, regolamentazioni pro-competitive[26]. Secondo la Corte Costituzionale, appartengono alla competenza legislativa residuale o concorrente delle Regioni «gli interventi sintonizzati sulla realtà produttiva regionale tali comunque da non creare ostacolo alla libera circolazione delle persone e delle cose fra le Regioni e da non limitare l’esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale» (Corte Costituzionale, 13 gennaio 2004, n. 14).

6.1. (segue): orari degli esercizi commerciali nella giurisprudenza della Corte Costituzionale. Ascrivibilità delle disposizioni di liberalizzazione degli orari tra quelle pro-concorrenziali.

Con particolare riferimento alla disciplina degli orari degli esercizi commerciali, tale profilo, anteriormente alla liberalizzazione del 2011, è stato ascritto alla materia del commercio di competenza esclusiva residuale delle Regioni[27].

La Corte Costituzionale, a conferma del fatto che la disciplina degli orari degli esercizi commerciali appartenesse alla materia “commercio”, osservava come tale disciplina non fosse ricompresa tra quelle elencate all’art. 3, comma 1, D.L. n. 223/2006, conv. in legge n. 248/2006 “al fine di garantire la libertà di concorrenza secondo condizioni di pari opportunità ed il corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonché di assicurare ai consumatori finali un livello minimo ed uniforme di condizioni di accessibilità all’acquisto di prodotti e servizi sul territorio nazionale”[28].

Secondo un primo indirizzo, la disciplina degli orari sarebbe un contenuto indefettibile della materia del commercio e dovrebbe perciò essere fissata dalle Regioni con pienezza ed esclusività di poteri, senza incontrare altro limite se non quelli generali fissati dal terzo comma dell’art.117 Costituzione[29].

In tale prospettiva l’art. 31 D.L. n. 201/2011 conv. in l. n. 214/2011 sarebbe pertanto costituzionalmente illegittimo per contrasto con l’art. 117 Cost.

Nel ricorso per legittimità costituzionale del 23 febbraio 2012 della Regione Veneto (in G.U.R.I. n. 12 del 21 marzo 2012), essa osserva che la modifica dell’art. 3 D.L. n. 223/2006, conv. in legge n. 248/2006 non costituirebbe né adeguamento dell’ordinamento interno al diritto comunitario, né esercizio di competenza legislativa in tema di tutela della concorrenza (cfr. art. 117, comma 2, lett. e Cost.) ovvero in tema di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale (cfr. art. 117, comma 2, lett. m Cost.).

Quanto alla compatibilità della disciplina regolatoria degli orari, viene infatti ricordata la giurisprudenza comunitaria sul punto (cfr. supra § 2). Viene inoltre osservato che la deregulation avrebbe l’effetto di favorire comportamenti anticoncorrenziali, agevolando lo sfruttamento abusivo di posizioni dominanti.

Quanto alla compatibilità dell’art. 31 D.L. n. 201/2011 conv. in l. n. 214/2011 con l’ordinamento interno italiano, viene osservato dalla Regione Veneto che la disposizione di liberalizzazione comprimerebbe, fino a svuotarla, la competenza legislativa esclusiva delle regioni in tema di commercio, compromettendo altri valori, costituzionalmente rilevanti, tra cui la tutela delle piccole medie imprese e la sicurezza e la quiete pubblica.

Invero, dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 288/2010 sembra potersi ricavare il principio secondo cui possano ricondursi nel novero delle misure pro-competitive anche le disposizioni che introducano, in tutto o in parte, la liberalizzazione degli orari di apertura e chiusura degli esercizi di vendita.

Nella sentenza n. 288/2010, pur venendo ribadito che la disciplina degli orari degli esercizi commerciali rientra nella materia “commercio”, la Corte Costituzionale afferma che una disciplina regionale di sostanziale liberalizzazione è costituzionalmente legittima proprio per la sua valenza pro-competitiva.

Da tale affermazione si ricava quindi il principio secondo cui la liberalizzazione degli orari di apertura degli esercizi commerciali concreti una misura di promozione della concorrenza (come del resto sin dal 1993 venne osservato dalla AGCM, cfr. § 1).

Il che potrebbe ritenersi sufficiente a sostenere che anche la disciplina degli orari degli esercizi di vendita possa essere attratta nella sfera di competenza legislativa statale ex art. 117, comma 2, lett. e) Costituzione.

In questa prospettiva pro-concorrenziale, anche nei riguardi della lettera d-bis) dell’art. 3, comma 1°, D.L. n. 223/2006, conv. in legge n. 248/2006 dovrebbero allora estendersi i principi enunciati dalla sentenza n. 430/2007 nei riguardi del medesimo art. 3 del c.d. Decreto Bersani I[30].

Nella sentenza n. 430/2007 della Corte Costituzionale viene infatti osservato che l’art. 3 del D.L. n. 223/2006, conv. in legge n. 248/2006 si inserisce nel quadro del “processo di modernizzazione” avviato dal D.Lgs. n. 114/1998 «all’evidente scopo di rimuovere i residui profili di contrasto della disciplina di settore con il principio della libera concorrenza. E il presupposto logico su cui la stessa normativa si fonda è che il conseguimento degli equilibri del mercato non può essere predeterminato normativamente o amministrativamente, mediante la programmazione della struttura dell’offerta, occorrendo invece, al fine di promuovere la concorrenza, eliminare i limiti ed i vincoli sui quali ha appunto inciso la norma, che ha quindi fissato le condizioni ritenute essenziali ed imprescindibili per garantire l’assetto concorrenziale nel mercato della distribuzione commerciale»[31].

6.2. Conseguenze della liberalizzazione ex art. 31 D.L. n. 201/2011 conv. in l. n. 214/2011 sulla previgente disciplina regionale.

Una volta attratta la normativa liberalizzatrice degli orari degli esercizi di vendita nella competenza legislativa statale ex art. 117, comma 2, lett. e) Cost., ne conseguirebbe la caducazione delle fonti regionali di segno contrario. Essendo «strumentale ad eliminare limiti e barriere all’accesso al mercato ed alla libera esplicazione della capacità imprenditoriale» (sent. n. 430/2007 cit.), l’art. 3 D.L. n. 223/2006, conv. in legge n. 248/2006 legittimamente detta disposizioni anche di dettaglio inderogabili da parte del legislatore regionale. Infatti, secondo la Corte Costituzionale, debbono ritenersi strumentali rispetto allo scopo di favorire l’apertura del mercato alla concorrenza «tutte le prescrizioni recate dal citato comma 1 dell’art. 3 … in quanto dirette a rimuovere limiti all’accesso al mercato … concernenti le modalità di esercizio dell’attività, nella parte influente sulla competitività delle imprese (comma 1, lettere c, d, e, ed f e comma 2)» (sent. n. 430/2007 cit.).

E per tale ragione, conclude la Corte Costituzionale, il comma 4° del medesimo art. 3[32] reca una prescrizione «che costituisce il naturale effetto dell’inderogabilità della norma, una volta ricondotta la materia all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.» (sent. n. 430/2007 cit.).

In applicazione di tali principi potrebbe quindi sostenersi che, a far data dall’entrata in vigore dell’art. 31 D.L. n. 201/2011 conv. in l. n. 214/2011[33], abbiano cessato di essere cogenti le disposizioni di fonte regionale o comunale contrastanti con la liberalizzazione degli orari degli esercizi di vendita.

Nel senso dell’immediata abrogazione delle fonti regionali contrastanti con i principi riformatori del D.L. n. 201/2011 conv. in l. n. 214/2011 si è di recente pronunciato il T.A.R. Lombardia Brescia, seppure soltanto in sede cautelare. Nell’ordinanza n. 186 del 10 febbraio 2012, è stato infatti ritenuto che il citato art. 31 costituisca «sicuramente espressione di principi fondamentali della legge dello Stato volti ad attuare un vasto programma di liberalizzazione delle attività economiche»; cosicché «a tale norma va riconosciuta efficacia abrogativa delle leggi regionali con essa incompatibili», in base a quanto previsto, osserva sempre il T.A.R. Brescia, dall’art. 10 della L. n. 62/1953[34], non occorrendo «alcuna opera di attuazione o adattamento da parte delle Regioni» (T.A.R. Lombardia Brescia, ord. n. 186/2012 cit.).

Del medesimo avviso è anche il T.A.R. Friuli Venezia Giulia, il quale ha osservato che le nuove disposizioni nazionali «si applicano anche alle Regioni a Statuto Speciale, in quanto afferenti alla materia della concorrenza, di esclusiva competenza statale» (T.A.R. Friuli-Venezia Giulia, Sez. I, 7 giugno 2012, n. 208).

In senso contrario si è invece pronunciato il T.R.G.A. di Trento, secondo cui le disposizioni liberalizzatrici del D.L. n. 201/2011 conv. in l. n. 214/2011 non troverebbero immediata applicazione nell’ordinamento trentino, in quanto incidenti su una materia, quella del commercio, compiutamente regolata dalla legislazione regionale la quale «continua a trovare applicazione, anche dopo l’introduzione del decreto-legge “salva Italia” finché non sia modificata dal legislatore provinciale o, in alternativa, fino ad una pronuncia della Corte Costituzionale» (T.R.G.A. Trento, ord. n. 24 del 10 febbraio 2012).

7. Sul potere di coordinamento dei Comuni in tema di orari.

Si è ricordato supra che con l’art. 54 d.P.R. n. 616/1977 venne attribuito ai Comuni il potere di coordinamento degli orari di apertura e chiusura degli esercizi commerciali.

Tale potere venne confermato dalla successiva normativa in tema di EE.LL. dapprima dall’art. 36, comma 3, l. n. 142/1990[35], poi dall’art. l’art. 11 legge 3 agosto 1999 n. 265[36], il quale novellò il medesimo comma 3° dell’art. 36 cit. e venne sostanzialmente riprodotto nel vigente all’art. 50, comma 7, TUEL.

Come osservato dalla Corte Costituzionale tale potere di coordinamento va oltre la disciplina degli orari di apertura degli esercizi commerciali, cosicché esso è destinato a sopravvivere anche nel caso di abrogazione del relativo complesso normativo[37].

Verificatosi l’evento abrogativo scongiurato dall’esito negativo del referendum del 1993, il potere di coordinamento dei Comuni dovrebbe quindi cessare dall’avere ad oggetto le attività commerciali di vendita al dettaglio, nonché quelle di somministrazione di bevande ed alimenti.

Per quanto riguarda infatti le disposizioni regolamentari comunali, il conflitto con la legge statale sopravvenuta non può che essere risolto in base al principio di gerarchia delle fonti, codificato all’art. 4 delle disposizioni preliminari al codice civile[38].

Nondimeno, deve ritenersi che, ove ne ricorrano i presupposti, i Comuni conservino il potere di emanare ordinanze contingibili ed urgenti intese a regolare l’orario di apertura e chiusura degli esercizi di vendita, in particolare, nelle ipotesi in cui l’autoregolamentazione degli esercenti non sia in grado di garantire la tutela di valori costituzionalmente rilevanti, ad es. nel caso, assai frequente, in cui le attività commerciali notturne rechino un intollerabile disturbo al riposo dei residenti nelle zone circostanti alle medesime attività[39].

Del resto, come osservato in dottrina all’epoca in cui vennero ammessi i quesiti referendari per l’abrogazione delle disposizioni in tema di orari di cui alla l. n. 558/1971, tale disciplina non incide «sulla par condicio degli operatori. né erige steccati all’ingresso e alla competizione delle imprese»[40]. La disciplina degli orari è semmai diretta alla tutela di interessi estranei alla competizione tra operatori economici nel mercato rilevante. Ciò in quanto la limitazione degli orari, «se può scontentare le esigenze della clientela ed anche ostacolare un razionale sfruttamento delle strutture aziendali laddove siano dimensionate per coprire fasce orarie più ampie, ha anche l’effetto di garantire la tutela di interessi socialmente rilevanti e di assicurare le condizioni per una competizione «paritaria» tra le grandi aziende e le imprese piccole e medio-piccole, le quali ultime sono senz’altro svantaggiate – per i ridotti volumi di affari e per le limitate capacità tecniche – ad affrontare un allungamento dell’orario di vendita» (Traina, op. cit.).

Anteriormente alla liberalizzazione del 2011, anche la giurisprudenza civile aveva espresso principi intesi a salvaguardare il potere di coordinamento dei Comuni in tema di orari anche nelle ipotesi di cui all’art. 12 del D.Lgs. n. 114/1998 e cioè nel caso di esercizi commerciali siti in Comuni ad economia prevalentemente turistica ovvero in Città d’arte.

Secondo la Cassazione, l’art. 12 non detterebbe alcuna possibilità per gli esercenti di derogare agli atti di coordinamento emanati dal Comune ex art. 36, comma 3, l. n. 142/1990 (ora art. 50, comma 7°, TUEL). Il che – osserva la S.C. – sarebbe «anche e decisivamente conforme alla logica che, impone che, sia pure nel contesto di una disciplina più aperta e flessibile in ragione delle esigenze turistiche, non sia lasciato agli esercenti degli esercizi commerciali il mero arbitrio di stabilire, in ordine a ciascun esercizio, orari di chiusura legati solo alla valutazione del singolo, e pertanto tali da creare disservizi e lacune nell’ambito dell’attività commerciale, che potrebbe risultare carente in alcuni orari non ritenuti remunerativi, ma pure bisognosi di copertura per soggetti residenti o dimoranti che necessitino di usufruire della rete di commercio locale in circostanze e per motivi che trascendono le connotazioni turistiche del luogo» (Cass., Sez. II, 20 gennaio 2009, n. 1378).

In applicazione di tali principi potrebbe quindi sostenersi che, pur in un contesto normativo flessibile, vi siano tuttora i margini per interventi normativi di carattere locale, fermi restando i principi informatori delle disposizioni di liberalizzazione. Ad esempio al limitato fine di salvaguardare esigenze e interessi di rilievo costituzionale (cfr. ancora Cass., Sez. II, sent. n. 1378/2009 cit.).

Potrebbe cioè ammettersi che atti generali dei comuni, che si fondino sulla tutela di beni primari o di interessi pubblici rilevanti (salute dei cittadini, esigenze del traffico, dell’ambiente e della sicurezza urbana), possano dettare deroghe ex art. 50, comma 7, TUEL alla normativa liberalizzatrice, nel rispetto dei principi di adeguatezza e proporzionalità.

In questa ipotesi il sindacato sulla ragionevolezza delle scelte compiute in sede locale sarebbe quindi rimesso al Giudice Amministrativo.



[1] Sul punto v. A. Ragazzini, La disciplina dell’attività commerciale dal dopoguerra alla legge Bersani: considerazioni circa la normativa introdotta dal suddetto testo e circa i limiti entro cui le Regioni potranno modificarla, in Foro Amm. – C.D.S., 2003, 05, 1747; A. Selmin, Gli orari nel commercio al dettaglio, in Disciplina del commercio, 1994, 442.

[2] Restavano espressamente escluse dall’ambito di applicazione l. n. 558/1971 le rivendite di generi di monopolio, i negozi e gli esercizi di vendita interni ai campeggi, villaggi e complessi turistico-alberghieri, gli esercizi di vendita al dettaglio situati nelle aree di servizio lungo le autostrade nelle stazioni ferroviarie, marittime e aeroportuali, le rivendite dei giornali e gli impianti autostradali di distribuzione di carburante (cfr. art. 6, comma 1°).

Le Regioni erano invece facultate ad escludere le rosticcerie e le pasticcerie dall’applicazione delle disposizioni della l. n. 558/1971 (art. 6, comma 2°).

Mentre la disciplina degli orari di apertura e chiusura degli impianti stradali di distribuzione di carburante erano determinate con decreto dell’allora Ministro per l’industria, il commercio e l’artigianato, sentite le regioni e le rappresentanze delle organizzazioni sindacali a carattere nazionale delle categorie interessate.

[3] Potevano essere autorizzati a derogare al divieto di cui alla lettera a) dell’art. 1 l. n. 558/1971, gli esercizi di rivendita di pane nel caso di festività infrasettimanali.

[4] Tale chiusura non avrebbe però potuto essere imposta quando nella settimana fosse caduto un giorno festivo oltre la domenica, cfr. art. 1 lett. c) l. n. 558/1971.

[5] Nel periodo delle festività natalizie e di altre festività tipicamente locali, l’art. 4 legge 28 luglio 1971, n. 558 attribuiva alle Regioni il potere di derogare al regime degli orari era prevista.

[6] Successivamente l’art. 1, comma 1, D.L. 26 gennaio 1987, n. 9, conv. in legge 27 marzo 1987, n. 121, introdusse marginali modifiche all’art. 8 D.L. n. 697/1982 conv. in l. n. 887/1982, n. 887, venendo in particolare previsto che «nel rispetto dei limiti così fissati l’operatore commerciale può scegliere l’orario di apertura e di chiusura con facoltà, inoltre, di posticipare, sempre rispetto ai predetti limiti, di un’ora l’apertura antimeridiana e corrispondentemente la chiusura serale, che comunque non può avvenire oltre le ore 21».

[7] Ai sensi dell’art. 1, comma 1°, l. n. 287/1991 per attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande si intende «la vendita per il consumo sul posto, che comprende tutti i casi in cui gli acquirenti consumano i prodotti nei locali dell’esercizio o in una superficie aperta al pubblico, all’uopo attrezzati».

Il successivo art. 5, comma 1°, l. n. 287/1991 distingue poi tra:

«a) esercizi di ristorazione, per la somministrazione di pasti e di bevande, comprese quelle aventi un contenuto alcoolico superiore al 21 per cento del volume, e di latte (ristoranti, trattorie, tavole calde, pizzerie, birrerie ed esercizi similari); b) esercizi per la somministrazione di bevande, comprese quelle alcooliche di qualsiasi gradazione, nonché di latte, di dolciumi, compresi i generi di pasticceria e gelateria, e di prodotti di gastronomia (bar, caffè, gelaterie, pasticcerie ed esercizi similari)».

[8] In http://www.agcm.it/stampa/comunicati/3662-relazione-qregolamentazione-della-distribuzione-commerciale-e-concorrenzaq.html

[9] Con l’art. 4, comma 4°, lettera c) legge 15 marzo 1997, n. 59, il Governo venne delegato a «ridefinire, riordinare e razionalizzare, sulla base dei princìpi e criteri di cui al comma 3 del presente articolo, al comma 1 dell’articolo 12 e agli articoli 14, 17 e 20, comma 5, per quanto possibile individuando momenti decisionali unitari, la disciplina relativa alle attività economiche ed industriali, in particolare per quanto riguarda il sostegno e lo sviluppo delle imprese operanti nell’industria, nel commercio, nell’artigianato, nel comparto agroindustriale e nei servizi alla produzione; per quanto riguarda le politiche regionali, strutturali e di coesione della Unione europea, ivi compresi gli interventi nelle aree depresse del territorio nazionale, la ricerca applicata, l’innovazione tecnologica, la promozione della internazionalizzazione e della competitività delle imprese nel mercato globale e la promozione della razionalizzazione della rete commerciale anche in relazione all’obiettivo del contenimento dei prezzi e dell’efficienza della distribuzione; per quanto riguarda la cooperazione nei settori produttivi e il sostegno dell’occupazione; per quanto riguarda le attività relative alla realizzazione, all’ampliamento, alla ristrutturazione e riconversione degli impianti industriali, all’avvio degli impianti medesimi e alla creazione, ristrutturazione e valorizzazione di aree industriali ecologicamente attrezzate, con particolare riguardo alle dotazioni ed impianti di tutela dell’ambiente, della sicurezza e della salute pubblica».

[10] Secondo il T.A.R. Veneto «il riferimento alle otto giornate domenicali o festive deve essere inteso come numero massimo, e non minimo, assentibile, dato che si tratta di una disposizione che deroga al principio, tuttora vigente, di obbligatorietà delle chiusure domenicali e festive» (T.A.R. Veneto, Sez. III, 26 gennaio 2010, n. 135). Ed ancora: «appare in primo luogo riduttivo ricondurre la vigente disciplina del commercio alla sola finalità di tutelare la libertà delle imprese e la concorrenza; un tale obiettivo, in un’ottica di sostanziale deregolamentazione del settore, avrebbe quale esito estremo il rafforzamento sul mercato di quelle di maggiori dimensioni a discapito proprio di un mercato concorrenziale, ed esaurirebbe l’intera disciplina nell’ambito della competenza legislativa statale di cui all’art. 117, secondo comma, lett. e) della Costituzione, giungendo a negare una propria autonomia al “commercio” inteso come “materia attribuita alla competenza legislativa residuale delle regioni” (pacificamente riconosciuta invece dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale: cfr. le sentenze 12 dicembre 2007, n. 430, punto 3.2.2. in diritto; 11 maggio 2007, n. 165; 9 marzo 2007, n. 64; 11 maggio 2006 , n. 199).

È necessario invece considerare che, in ragione dei rilevanti effetti di carattere urbanistico e sociale che derivano dalla presenza o meno di esercizi commerciali sul territorio, la predetta disciplina mira ad una regolamentazione finalizzata a contemperare i principi e i valori della concorrenza con la salvaguardia delle aree urbane, dei centri storici, della pluralità tra diverse tipologie delle strutture commerciali e della funzione sociale svolta dai servizi commerciali di prossimità.

Infatti per l’art. 1, comma 3, lett. b), d), ed e) del Dlgs. 31 marzo 1998, n. 114, la disciplina sul commercio persegue anche le finalità della “tutela del consumatore, con particolare riguardo (…) alla possibilità di approvvigionamento, al servizio di prossimità”, del “pluralismo ed equilibrio tra le diverse tipologie delle strutture distributive e le diverse forme di vendita, con particolare riguardo al riconoscimento e alla valorizzazione del ruolo delle piccole e medie imprese”, e della “valorizzazione e salvaguardia del servizio commerciale nelle aree urbane, rurali, montane, insulari”» (T.A.R. Veneto, Sez. III, 23 dicembre 2009, n. 3819).

[11] Cons. St., Sez. V, 5 aprile 2005, n. 1548: «è vero che, in base alla seconda parte della norma in esame, i giorni festivi e le domeniche di dicembre sono da ricomprendere nelle deroghe all’obbligo di chiusura festiva e domenicale; non di meno, tale parte della norma poggia sulla prima parte ed acquista efficacia se ed in quanto l’Amministrazione eserciti i poteri conferitile con la prima parte del comma stesso.

In altre parole, il Comune individua i giorni e le zone del territorio nei quali gli esercenti possono derogare all’obbligo di chiusura domenicale e festiva e, nell’esercitare tale potestà, deve ricomprendere nelle deroghe anche le domeniche e le festività del mese di dicembre; fino a che tale potestà non viene esercitata, non può ritenersi che domeniche e festività del mese di dicembre debbano costituire oggetto di deroga ex lege, la deroga dovendosi pur sempre ritenere subordinata all’azione amministrativa contemplata nella prima parte della norma, spettando ai soggetti singoli o collettivi interessati attivarsi, in caso di inerzia da parte della P.A., per farle dare corso al procedimento.

Si noti anche che l’estensione della deroga a tutte le domeniche e festività del mese di dicembre può operare sempre e soltanto nel contesto della prima parte della norma stessa e, quindi, in funzione di quelle scelte, latamente discrezionali, di competenza della P.A., volte ad individuare le zone di territorio in cui, in quei giorni festivi e domenicali, la deroga può operare.

(…) In definitiva, il legislatore ha imposto ai Comuni la deroga di cui si tratta per otto domeniche – a scelta – nel corso dell’anno e per specifiche aree territoriali, oltre che in tutte le domeniche e le altre festività del solo mese di dicembre; ma, per queste ultime, non ha inteso estendere la facoltà di deroga a tutto indistintamente il territorio comunale, avendo, anche in questo caso, fatto salvo il potere di programmazione territoriale delle singole deroghe previsto dalla prima parte della norma ed al suo concreto esercizio subordinato».

[12] Ai sensi del comma 3° dell’art. 12 è attribuita alle Regioni, anche su proposta dei soggetti interessati (esercenti, lavoratori e consumatori), l’individuazione dei comuni ad economia prevalentemente turistica, le città d’arte e le zone del territorio dei medesimi, nonché i periodi di maggiore afflusso turistico.

[13] Sul punto, osserva in particolare il Consiglio di Stato che il citato comma 7° dell’art. 50 «recita: “Il sindaco … coordina e riorganizza … gli orari degli esercizi commerciali, dei pubblici esercizi e dei servizi pubblici”; nell’ambito, s’intende, delle disposizioni di legge. Per trarre dalla disposizione la conseguenza che il sindaco può imporre orari di chiusura in contrasto con l’articolo 13 del decreto legislativo n. 114 del 2000, come fa la sentenza impugnata, si deve attribuire all’articolo 50 l’effetto di abrogare il titolo IV del decreto n. 114 del 1998; e per attribuire all’articolo 50 tale effetto di deve dire che esso è incompatibile con le disposizioni del suddetto titolo IV (articolo 15 delle disposizioni sulla legge in generale, premesse al codice civile: «Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti…»). Ma ciò è insostenibile, perché per aversi un’incompatibilità, ossia un contrasto logico tra le due normative, occorrerebbe quanto meno che l’articolo 50 dicesse che il sindaco «individua» o «disciplina» gli orari, ossia attribuisse al sindaco il potere di stabilire gli orari degli esercizi commerciali senza più esser vincolato da norme di legge» (Cons. St., Sez. V, sent. n. 5017/2009 cit.). Contra T.A.R. Toscana, Sez. II, sentenza 6 ottobre 2011 n. 1454.

[14] D.L. 4 luglio 2006, n. 223 conv. in legge 4 agosto 2006, n. 248.

[15] Art. 35, comma 6, D.L. 6 luglio 2011, n. 98 conv. in legge 15 luglio 2011, n. 111: « 6. All’articolo 3, comma 1, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, dopo la lettera d) è aggiunta la seguente: “d-bis), in via sperimentale, il rispetto degli orari di apertura e di chiusura, l’obbligo della chiusura domenicale e festiva, nonché quello della mezza giornata di chiusura infrasettimanale dell’esercizio ubicato nei comuni inclusi negli elenchi regionali delle località turistiche o città d’arte;”».

[16] Art. 31 (“Esercizi commerciali“) D.L. 6 dicembre 2011, n. 201 conv. in legge 22 dicembre 2011, n. 214:

«1. In materia di esercizi commerciali, all’articolo 3, comma 1, lettera d-bis, del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, sono soppresse le parole: “in via sperimentale” e dopo le parole “dell’esercizio” sono soppresse le seguenti “ubicato nei comuni inclusi negli elenchi regionali delle località turistiche o città d’arte”.

2. Secondo la disciplina dell’Unione Europea e nazionale in materia di concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi, costituisce principio generale dell’ordinamento nazionale la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi altra natura, esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali. Le Regioni e gli enti locali adeguano i propri ordinamenti alle prescrizioni del presente comma entro il 30 settembre 2012».

[17] Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione).

[18] Cfr. Corte Costituzionale 11 maggio 2006, n. 199; 13 gennaio 2004, n. 1; 11 maggio 2007, n. 165.

[19] V. ancora ord. n. 199/2006 cit.; nello stesso senso v. altresì 8 ottobre 2010, n. 288. Nel vigente ordinamento costituzionale, il conflitto tra leggi statali e leggi regionali è regolato dal c.d. principio di cedevolezza, il quale è ora positivizzato all’art. 1, comma 2°, l. n. 131/2003, ai sensi del quale «le disposizioni normative statali vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge nelle materie appartenenti alla legislazione regionale continuano ad applicarsi, in ciascuna Regione, fino alla data di entrata in vigore delle disposizioni regionali in materia, fermo quanto previsto al comma 3, fatti salvi gli effetti di eventuali pronunce della Corte costituzionale. Le disposizioni normative regionali vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge nelle materie appartenenti alla legislazione esclusiva statale continuano ad applicarsi fino alla data di entrata in vigore delle disposizioni statali in materia, fatti salvi gli effetti di eventuali pronunce della Corte Costituzionale».

[20] Circa la definizione dei confini della tutela della concorrenza, cfr. Corte Costituzionale 23 novembre 2007, n. 401; 28 dicembre 2006, n. 450; 1° giugno 2006, n. 216; 3 marzo 2006, n. 80; 15 novembre 2004, n. 345; 14 dicembre 2007, n. 430; 21 aprile 2011, n. 150.

In dottrina v. F. Benelli, art. 117, in Commentario breve alla Costituzione, a cura di Bartole, Bin, Crisafulli, Paladin, Padova, 2008, p. 1044; A. Concaro, I. Pellizzone, Tutela della concorrenza e materie trasversali: alcune note a margine della sent. n. 345 del 2004, in Le Regioni, 2005, n. 3, pp. 431 – 439; V. Vanacore, La «tutela delle concorrenza» come materia trasversale nei rapporti fra leggi statali e regionali, in Dir. Giur., 2005, pp. 592 – 597; F. Benelli, Separazione vs. collaborazione: due nuove pronunce della Corte costituzionale in tema di tutela dell’ambiente e di materie trasversali, in le Regioni, 2008, n. 4-5, p. 909; R. Bin, Problemi legislativi e interpretativi nella definizione delle materie, in Scritti in memoria di Livio Paladin, Napoli, 2004, p. 319; S. Musolino, I rapporti Stato-Regioni nel nuovo Titolo V alla luce dell’interpretazione della Corte costituzionale, Milano, 2007, pp. 54 – 57; L. Arnaudo, Costituzione e concorrenza: note a margine della recente giurisprudenza costituzionale, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2005, pp. 377 – 393; A. Argentati, Il principio di concorrenza e la regolazione amministrativa dei mercati, Torino, 2008; R. Caranta, La tutela della concorrenza, le competenze legislative e la difficile applicazione del titolo V della Costituzione (nota a Corte cost. n. 14/2004), in le Regioni, 2004, n. 4, pp. 990 – 998.

[21] Così Corte Costituzionale sent. n. 430/2007 cit.; nello stesso senso 13 gennaio 2004, n. 14.

[22] Corte Costituzionale 15 maggio 2004, n. 345.

[23] Così Corte Costituzionale sent. n. 430/2007 cit. V. altresì Corte Costituzionale 14 dicembre 2007, n. 431; 24 ottobre 2008, n. 350, su cui nota di M. Lariccia, Un nuovo criterio per interpretare il rapporto tra funzioni legislative e amministrative: la Corte torna sui propri passi rispetto alla “chiamata in sussidiarietà”, in Riv. giur. edilizia, 2009, 1, 64, nonché Corte Costituzionale, 13 gennaio 2004, n. 14, secondo cui «è il criterio sistematico che occorre utilizzare al fine di tracciare la linea di confine tra il principio autonomistico e quello della riserva allo Stato della tutela della concorrenza.

In tale prospettiva, proprio l’inclusione di questa competenza statale nella lettera e) dell’art. 117, secondo comma, Cost., evidenzia l’intendimento del legislatore costituzionale del 2001 di unificare in capo allo Stato strumenti di politica economica che attengono allo sviluppo dell’intero Paese; strumenti che, in definitiva, esprimono un carattere unitario e, interpretati gli uni per mezzo degli altri, risultano tutti finalizzati ad equilibrare il volume di risorse finanziarie inserite nel circuito economico. L’intervento statale si giustifica, dunque, per la sua rilevanza macroeconomica: solo in tale quadro è mantenuta allo Stato la facoltà di adottare sia specifiche misure di rilevante entità, sia regimi di aiuto ammessi dall’ordinamento comunitario (fra i quali gli aiuti de minimis), purché siano in ogni caso idonei, quanto ad accessibilità a tutti gli operatori ed impatto complessivo, ad incidere sull’equilibrio economico generale».

[24] Cfr. Corte Costituzionale sent. n. 14/2004 cit.: «dal punto di vista del diritto interno, la nozione di concorrenza non può non riflettere quella operante in ambito comunitario, che comprende interventi regolativi, la disciplina antitrust e misure destinate a promuovere un mercato aperto e in libera concorrenza». Sono misure legislative di promozione quelle che «mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura, eliminando barriere all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese, in generale i vincoli alle modalità di esercizio delle attività economiche» (sent. n. 430/2007). Mediate le misure di promozione il legislatore persegue pertanto «finalità di ampliamento dell’area di libera scelta sia dei cittadini, sia delle imprese, queste ultime anche quali fruitrici, a loro volta, di beni e di servizi» (sent. n. 430/2007).

[25] Cfr. Corte Costituzionale sent. n. 430/2007 cit.: «non possono ricondursi alla “tutela della concorrenza” quelle misure statali che non intendono incidere sull’assetto concorrenziale dei mercati o che addirittura lo riducono o lo eliminano». Nello stesso senso Corte Costituzionale sent. n. 150/2011 cit.

[26] Cfr. sent. n. 430/2007 cit.; v. altresì 14 dicembre 2007, n. 431; 8 ottobre 2010, n. 288; sent. n. 150/2011 cit.

[27] Cfr. Corte Costituzionale sent. n. 150/2011 cit.; n. 288/2010 cit.; 24 ottobre 2008, n. 350; 7 febbraio 2012, n. 18.

[28] Cfr. Corte Costituzionale sent. n. 150/2011 cit.; n. 288/2010 cit. In quest’ultima viene appunto osservato che l’art. 3, comma 1, D.L. n. 223/2006, conv. in legge n. 248/2006 «nel dettare le regole di tutela della concorrenza nel settore della distribuzione commerciale – al fine di garantire condizioni di pari opportunità ed il corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonché di assicurare ai consumatori finali un livello minimo ed uniforme di condizioni di accessibilità all’acquisto di prodotti e servizi sul territorio nazionale – non ricomprende la disciplina degli orari e della chiusura domenicale o festiva nell’elenco degli ambiti normativi per i quali espressamente esclude che lo svolgimento di attività commerciali possa incontrare limiti e prescrizioni».

[29] Cfr. S. Scagliarini, La Corte e le politiche regionali per il commercio e il lavoro: un’incoerente applicazione di criteri corretti, in Giur. it., 2011, p. 2252. Secondo l’A. «la disciplina degli orari attiene al commercio, ma in qualche misura interseca anche la tutela della concorrenza, per cui, essendo prevalente l’aspetto regolativo dell’attività economica commerciale, è la Regione a poter legiferare, dovendo però collaborare lealmente nella finalizzazione della disciplina complessiva verso un assetto concorrenziale del mercato».

[30] In questo senso v. Ministero dello Sviluppo Economico, circolare esplicativa n. 3644 del 28 ottobre 2011, Liberalizzazione degli orari di apertura e di chiusura.

[31] V. altresì Cons. St., Sez. V, 5 maggio 2009, n. 2808.

[32] Ai sensi dell’art. 3, comma 4, D.L. 4 luglio 2006, n. 223 conv. in legge 4 agosto 2006, n. 248: «le regioni e gli enti locali adeguano le proprie disposizioni legislative e regolamentari ai principi e alle disposizioni di cui al comma 1 entro il 1° gennaio 2007».

[33] Con riferimento alla disciplina degli orari l’art. 31 non detta infatti alcuna disposizione transitoria, come invece previsto al comma 2° del medesimo articolo con riferimento alla «la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi altra natura, esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali».

[34] In base all’art. 10 (“Adeguamento delle leggi regionali alle leggi della Repubblica“) legge 10 febbraio 1953, n. 62 (“Costituzione e funzionamento degli organi regionali“):

«Le leggi della Repubblica che modificano i princìpi fondamentali di cui al primo comma dell’articolo precedente abrogano le norme regionali che siano in contrasto con esse.

I Consigli regionali dovranno portare alle leggi regionali le conseguenti necessarie modificazioni entro novanta giorni».

[35] L’originario art. 36, comma 3, l. n. 142/1990 così disponeva: «3. Il sindaco è inoltre competente, nell’ambito della disciplina regionale e sulla base degli indirizzi espressi dal consiglio comunale, a coordinare gli orari degli esercizi commerciali, dei servizi pubblici, nonché gli orari di apertura al pubblico degli uffici periferici delle amministrazioni pubbliche, al fine di armonizzare l’esplicazione dei servizi alle esigenze complessive e generali degli utenti».

[36] Art. 11, comma 12, legge 3 agosto 1999 n. 265: «Il sindaco coordina e riorganizza, sulla base degli indirizzi espressi dal consiglio comunale e nell’ambito dei criteri eventualmente indicati dalla regione, gli orari degli esercizi commerciali, dei pubblici esercizi e dei servizi pubblici, nonché, d’intesa con i responsabili territorialmente competenti delle amministrazioni interessate, gli orari di apertura al pubblico degli uffici pubblici localizzati nel territorio, al fine di armonizzare l’espletamento dei servizi con le esigenze complessive e generali degli utenti”».

[37] Nell’ammettere i quesiti referendari abrogativi delle disposizioni in tema di orari di apertura di cui alla legge 28 luglio 1971, n. 558, la Corte Costituzionale osservò che, in senso contrario all’ammissibilità dei quesiti referendari, non rilevava nemmeno «la norma (anch’essa non coinvolta nella richiesta referendaria) di cui all’art. 36, comma 3, della legge n. 142 del 1990 sull’ordinamento delle autonomie locali, perché, pur con l’eventuale esito positivo dell’iniziativa referendaria, si giustifica in ogni caso la perdurante vigenza della norma, che disciplina un potere di coordinamento di orari relativi anche ad altre attività sulle quali non interferisce la normativa oggetto del quesito» (sent. n. 4 del 12 gennaio 1995). Sul punto, v. D. Traina, Di alcune questioni relative ai referendum sulla disciplina del commercio: in particolare l’esatta individuazione del principio abrogativo, in Giur. cost., 1995, I, 37.

[38] Circa l’abrogazione di fonti regolamentari comunali a seguito dell’entrata in vigore di fonti legislative contrastanti, cfr. Cons. St., Sez. V, 28 giugno 2006, n. 4206, con nota di B. Gagliardi, Disciplina dell’attività di estetista e tutela della concorrenza, in Foro Amm. – C.D.S., 2006, 9, 2545.

[39] Sul punto vedasi V. Cerulli Irelli, Principio di legalità e poteri straordinari della Pubblica Amministrazione, in Dir. pubbl., 2007, 345 e ss.; A. Cardone, La «normalizzazione» dell’emergenza. Contributo allo studio del potere extra ordinem del Governo, Torino, 2011; C. Meoli, Il potere di ordinanza del sindaco in materia di incolumità pubblica e sicurezza urbana, in Giorn. dir. amm., 2009. In giurisprudenza con specifico riferimento ai poteri d’ordinanza in tema di orari, v. di recente, T.A.R. Toscana, Sez. II, 28 marzo 2012, n. 629; in termini generali v. T.A.R. Emilia-Romagna Bologna, Sez. II, 4 luglio 2012, n. 470; Cons. St., Sez. VI, 13 giugno 2012, n. 3490; T.A.R. Puglia Bari, Sez. II, 5 giugno 2012, n. 1099; T.A.R. Calabria, 24 maggio 2011, n. 778; Id., 7 marzo 2011, n. 331; T.A.R. Lombardia, Sez. I, 18 maggio 2011, n. 739.

[40] D.M. Traina, Di alcune questioni relative ai referendum sulla disciplina del commercio: in particolare l’esatta individuazione del «principio abrogativo», in Giur. cost., 1995, 1, 37. Osserva infatti l’A. che la l. n. 558/1971 «si limita a stabilire il «quadro» entro cui ha libero gioco la concorrenza, al fine di evitarne gli eccessi e di tutelare, indirettamente, il diritto al riposo dei lavoratori (non tanto dei lavoratori dipendenti, protetti da altre norme; quanto dei lavoratori autonomi)».