“Riflessioni sull’applicazione della Direttiva servizi alle concessioni di beni demaniali marittimi con finalità turistico-ricreative”

articolo a firma dell’Avvocato Roberto RIGHI e dell’Avvocato Ettore NESI, pubblicato sul n. 8/2014 della Rivista NELDIRITTO

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Abstract

In epoca recente si è assistito a un intenso dialogo tra fonti comunitarie e fonti interne in tema di usi dei beni pubblici e, segnatamente, dei beni appartenenti al demanio marittimo concessi a privati per attività turistico-ricreative. Come vedremo, l’attenzione delle Istituzioni comunitarie si è in particolare appuntata sul c.d. diritto di insistenza, previsto a favore del concessionario uscente dall’art. 37 cod. nav., nonché sul diritto di rinnovo automatico delle concessioni demaniali marittime con finalità turistico-ricreative, previsto dall’art. 10 legge n. 88/2001. Nella lettera della Commissione CE di costituzione in mora della Repubblica Italiana per infrazione n. 2008/4908, il c.d. diritto di insistenza veniva descritto come una forma di restrizione alla libertà di stabilimento, una sorta di posizione dominante discriminatoria rispetto agli altri operatori economici, in contrasto pertanto con l’art. 43 del Trattato di Roma (ora art. 49 TFUE). La suddetta procedura di infrazione si concludeva con la soppressione del diritto di insistenza (ad opera dell’art. 1, comma 18, D.L. n. 194/2009, conv. in legge n. 25/2010) e del rinnovo automatico delle concessioni (ad opera dell’art. 11 legge n. 217/2011). Tale esito impone oggi di interrogarsi sulla sorte dei beni e delle aziende appartenenti ai concessionari, allorché, alla fine del regime transitorio (e cioè il 31 dicembre 2020), scadrà il termine di durata “legale” delle concessioni demaniali marittime in essere al 30 dicembre 2009. In base alle indicazioni che provengono dal formante comunitario, infatti, tutte le concessioni demaniali marittime dovranno essere riassegnate mediante aste pubbliche, senza possibilità di accordare alcuna preferenza al concessionario uscente. L’interrogativo che si pone, e al quale, in questa sede, si intende dare una prima risposta, è se oggetto dell’asta dovrà essere la risorsa pubblica stricto sensu intesa, e cioè la zona demaniale, o anche le fabbriche e i compendi aziendali che i concessionari uscenti hanno autonomamente organizzato per l’esercizio della propria impresa turistico-balneare. Tali beni non sono infatti beni pubblici, bensì privati. Nel rispondere all’interrogativo sulla sorte dei beni del concessionario inerenti al bene pubblico, si vedrà come dall’ambito applicativo della c.d. Direttiva servizi (Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio relativa ai servizi nel mercato interno n. 06/123/CE del 12 dicembre 2006) resti escluso il regime e la circolazione dei beni, ivi inclusi quelli realizzati dai concessionari sul demanio marittimo. Anche nel rapporto concessorio relativo a beni demaniali marittimi ciò che rileva non è infatti la prestazione di servizi da parte del concessionario, bensì la dazione del bene pubblico al privato al fine di esercitare un’attività imprenditoriale, che non è tuttavia inerente al bene, anche se vi insiste; il bene pubblico non è infatti ex se produttivo di beni di servizi, ma lo è l’azienda del concessionario. Sennonché, la temporaneità della concessione demaniale, nonché il venir meno del diritto di insistenza finiscono per incidere proprio sul regime giuridico dei beni dei privati insistenti sul demanio marittimo, riguardo ai quali si impone allora l’individuazione di un nuovo statuto, idoneo a contemperare la tutela della concorrenza e l’esigenza, anch’essa di rilevanza comunitaria, di protezione della proprietà privata, la quale è solennemente sancita sia dall’art. 1 del I Protocollo addizionale della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, il quale è richiamato nell’ordinamento comunitario dall’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea di Lisbona, sia dall’art. 17 della Carta di Nizza.

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SOMMARIO

1. – Introduzione. L’uso particolare del bene pubblico. 2. – (segue): i pubblici usi del mare. 3. Dagli usi pubblici del mare alla prestazione di servizi. 4. (segue): l’interpretazione comunitariamente orientata del diritto di insistenza. 5. Sulla procedura d’infrazione n. 2008/4908 avviata dalla Commissione europea nei confronti della Repubblica Italiana. Il regime transitorio introdotto dall’art. 1, comma 18, D.L. n. 194/2009 conv. in l. n. 25/2010. 6. (segue): l’abrogazione del c.d. diritto di insistenza e la proroga delle concessioni demaniali marittime sino al 2020. 7. (segue): il superamento della regola del rinnovo tacito delle concessioni demaniali turistico-ricreative di durata sessennale. 8. (segue): i tentativi delle Regioni di restaurare l’automatismo dei rinnovi. 9. Compatibilità con il diritto comunitario della proroga ex lege del termine di durata delle concessioni demaniali marittime. 10. (segue): compatibilità tra regime transitorio e diritto comunitario. Il carattere non self executing della Direttiva servizi. 11. (segue): ragionevolezza del regime transitorio rispetto dal punto di vista costituzionale. 12. Critica della tesi, sostenuta dalla Commissione Europea, circa l’applicabilità della Direttiva servizi alle concessioni demaniali marittime. 13. – (segue): la distinzione tra concessioni demaniali marittime di suolo e concessioni demaniali marittime di beni produttivi. 14. (segue): realità della relazione giuridica intercorrente tra il concessionario e i beni, diversi da quelli demaniali, ubicati sul sedime demaniale. 15. (segue): inoperatività dell’accessione ex art. 49 cod. nav. nel caso di rinnovo-vidimazione delle concessioni demaniali marittime. 16. Risorse pubbliche, risorse private e Direttiva servizi. 17. Direttiva servizi e tutela delle libertà fondamentali sancite dalla Carta di Nizza. In particolare, la proprietà privata “europea”. 18. L’equo indennizzo del concessionario uscente all’esito delle gare pubbliche che si terranno successivamente al 2020.

 

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1. Introduzione. L’uso particolare del bene pubblico.

La specialità del regime giuridico dei beni demaniali viene tradizionalmente giustificata dall’esigenza di garantire all’intera collettività il godimento delle utilità provenienti dai beni che lo compongono[1].

Accanto all’uso c.d. generale, e cioè quello diretto del bene pubblico da parte della Pubblica autorità, viene al contempo ammesso un uso particolare da parte dei privati[2]. Secondo SANDULLI, infatti, l’uso generale comporta un’ammissione indiscriminata di tutti i consociati al godimento del bene, anche se dietro il pagamento di un prezzo o di una tassa, oppure previo rilascio di un permesso. In questo caso, i soggetti ammessi all’uso del bene pubblico non hanno facoltà di determinare la destinazione del bene, ma semplicemente diritto a non essere esclusi dal suo godimento (una volta previsto di destinarlo ad uso generale da parte dell’amministrazione)[3]. L’uso particolare dei beni pubblici trova invece titolo in una concessione amministrativa di tipo costitutivo, frutto dell’incontro tra pubblica amministrazione e singolo, che permette solo al suo beneficiario di fruire del bene previo pagamento di un canone[4]. La concessione consente così di instaurare tra Autorità demaniale e concessionario un rapporto di diritto pubblico, in forza del quale quest’ultimo acquisisce facoltà per un determinato periodo di tempo.

Le attività, che il concessionario è in grado di svolgere, usando il bene pubblico, debbono corrispondere, nella prospettiva seguita nelle codificazioni del 1942, ad un miglioramento delle condizioni di fruibilità del medesimo bene. Per questo motivo, gli usi particolari vengono posti su un piano convergente rispetto a quelli generali, il cui perseguimento resta affidato alla P.A.

2. (segue): i pubblici usi del mare.

2.1. Con specifico riferimento al demanio marittimo, il Codice della navigazione reca un’elencazione dei beni “destinati alla navigazione” (v. art. 28[5]). Il Codice della navigazione non contiene tuttavia anche un catalogo degli usi pubblici del mare, ancorché sia proprio tale strumentalità a connotare un bene come bene demaniale, come si si ricava a contrario dall’art. 35 cod. nav., in base al quale, ove venga meno il nesso di strumentalità con il pubblico uso del mare, il bene può essere escluso dal demanio marittimo[6].

2.2. All’epoca in cui entrò in vigore il Codice della navigazione (approvato con R.D. n. 327 del 30 marzo 1942, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 93 del 18 aprile 1942 ed entrato in vigore il 21 aprile del 1942), le categorie di “usi del mare” erano anzitutto viste in un’ottica bellico-militare.

Accanto a tali usi il Codice della navigazione guardava al demanio marittimo anche in un’ottica commerciale-mercantile. I pubblici usi del mare, che giustificavano l’inclusione di un bene nel demanio marittimo, erano infatti la navigazione, la pesca, la navigazione mercantile.

Ma anche nell’accezione commerciale-mercantilistica il Codice della navigazione poneva l’accento ai benefici che sarebbero derivati all’interesse pubblico dall’uso del bene da parte del privato. Nel caso del demanio marittimo la ricordata convergenza tra uso particolare e uso generale è talmente rilevante da assurgere a discrimine nella scelta tra più domande di concessione. All’art. 37 cod. nav. viene infatti sancita, nel caso di domande concorrenti, la preferenza per «il richiedente che offra maggiori garanzie di proficua utilizzazione della concessione e si proponga di avvalersi di questa per un uso che, a giudizio dell’amministrazione, risponda a un più rilevante interesse pubblico». All’art. 36 il Codice della navigazione subordina poi la concessione di beni demaniali alla compatibilità dell’occupazione «con le esigenze del pubblico uso».

3. Dagli usi pubblici del mare alla prestazione di servizi.

3.1. La disciplina del Codice ha per oggetto il bene pubblico; l’individuazione e la conseguente regolamentazione delle attività, a cui potrà essere destinato tale bene, sono rimesse al titolo concessorio, che verrà in concreto assunto dall’Autorità marittima[7]. I privati intrattengono infatti rapporti giuridici con l’amministrazione concedente in virtù di titoli concessori solitamente qualificabili come concessioni-contratto, in cui confluiscono sia l’atto unilaterale ed autoritativo – la concessione vera e propria – sia un’articolata regolamentazione del rapporto bilaterale, fonte di obblighi e diritti reciproci, dell’ente concedente e del privato concessionario[8].

Nel caso di concessioni demaniali rilasciate per attività turistico-ricreative il codice della navigazione non detta alcuna disciplina specifica o differenziata. Il legislatore se ne occupava per la prima volta con il D.L. n. 400/1993, conv. in legge n. 494/1993[9], ai sensi del cui art. 01, comma 1, «la concessione dei beni demaniali marittimi può essere rilasciata, oltre che per servizi pubblici e per servizi e attività portuali e produttive, per l’esercizio delle seguenti attività: a) gestione di stabilimenti balneari; b) esercizi di ristorazione e somministrazione di bevande, cibi precotti e generi di monopolio; c) noleggio di imbarcazioni e natanti in genere; d) gestione di strutture ricettive ed attività ricreative e sportive; e) esercizi commerciali».

Successivamente, la c.d. Legge Baldini (legge 16 marzo 2001, n. 88) novellava il comma 2° del citato art. 01 D.L. n. 400/1993, prevedendo che le concessioni demaniali marittime rilasciate con finalità turistico-ricreative «indipendentemente dalla natura o dal tipo degli impianti previsti per lo svolgimento delle attività, hanno durata di sei anni. Alla scadenza si rinnovano automaticamente per altri sei anni e così successivamente ad ogni scadenza».

Dal diritto positivo si ricavava insomma che l’uso del demanio marittimo per finalità turistico-ricreative fosse soltanto uno degli usi del mare consentiti, accanto agli altri industriali-commerciali (servizi pubblici, servizi e attività portuali e produttivi).

3.2. Come osservato da Giannini, nel caso di concessioni di beni appartenenti al demanio marittimo, non si ha una concessione di produzione, come invece nel caso di concessioni minerarie o quelle di derivazione idrica. In ipotesi di concessione di produzione – osserva l’A. – ciò che rileva «non è il bene in sé, quanto l’uso del bene a fini produttivi»[10]; in altri termini oggetto della concessione è il mezzo di produzione industriale, «oggetto della concessione essendo la produzione»[11]. Nel caso di concessione di beni appartenenti al demanio marittimo si attua invece una vera e propria concessione di beni, ove il bene va «inteso quale ambito spaziale dell’attività del concessionario, ossia come cosa»[12]. In questi casi, osserva sempre GIANNINI, il pubblico interesse «attiene all’esserci di queste attività dei privati, non alle attività in quanto tali»[13]. Nell’ipotesi di concessioni di beni in senso stretto non assume quindi rilievo che il bene venga destinato ad una peculiare attività. L’arenile demaniale potrebbe essere ad esempio destinato ad attività turistico-ricreative (stabilimenti balneari, ristoranti etc.) o a attività industriali, ma ognuna delle suddette utilizzazioni particolari potrebbe essere ritenuta dall’Autorità concedente convergente con l’interesse pubblico generale. Nella prospettiva gianniniana, il bene appartenente al demanio marittimo non è pertanto un bene di per sé produttivo; al contempo, per tramite del titolo concessorio, viene ad essere consentito al concessionario di incorporare nella propria azienda il bene pubblico[14]. Ma è la prima (l’azienda privata) e non il secondo (il bene pubblico) ad essere in grado di produrre utilità. L’interesse pubblico è soddisfatto dal pagamento del canone concessorio, ma l’Autorità concedente non si ingerisce anche nelle vicende imprenditoriali del proprio concessionario, il quale sarà tenuto al solo rispetto degli obblighi e delle prescrizioni inerenti al titolo concessorio, pena la decadenza della concessione ex art. 47 cod. nav.

Il c.d. diritto di insistenza ex art. 37 cod. nav. e la previsione di rinnovo automatico delle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreative ex art. 10 della c.d. legge Baldini erano funzionali alla tutela dell’azienda del concessionario, non diversamente dalla previsione, di diritto comune, secondo cui i contratti di locazione commerciale sono rinnovabili tacitamente[15].

3.3. La crisi del diritto di insistenza appare quindi frutto di un equivoco, più che l’approdo nella materia, che ci occupa, di un processo lento, perché iniziato nel 1957 con il Trattato di Roma, ma che, in realtà, abbiamo visto esplodere con enormi ricadute sull’ordinamento interno, a partire dal leading case Simmenthal (Corte Cost. sent. n. 170/1984), venendo ad assumere i trattati comunitari e le normative di derivazione comunitaria un valore sostanzialmente super costituzionale[16]. Infatti, alla base di quello che nel Trattato di Roma veniva chiamato Mercato Comune Europeo, erano posti valori fondativi: la libertà di concorrenza, il divieto di barriere alla circolazione del capitale, delle persone, delle imprese, il divieto di abuso di posizioni dominanti e, soprattutto, via via evolvendosi il diritto costituzionale comunitario, la assoluta libertà di stabilimento[17], libertà di prestazione di servizi, per arrivare a quella che oggi si potrebbe chiamare la cittadinanza europea.

Tali principi e tali libertà hanno quindi posto sia il problema delle barriere ad accesso[18] nei vari mercati interni, sia il problema della libera circolazione dei prestatori di servizi.

3.4. È in tale contesto che va dunque collocata la lettura che, a partire dagli anni 80 del secolo scorso, è stata data della concessione dei beni del demanio marittimo con finalità turistico-ricreative. Per alcuni interpreti, infatti, l’oggetto della concessione cessava di essere l’arenile demaniale, il quale come detto non è di per sé un bene produttivo, divenendo invece lo stabilimento balneare, quale unità aziendale produttrice di servizi. In tale prospettiva, la concessione del bene demaniale si transustanzierebbe da concessione d’uso di bene pubblico, in una vera e propria concessione di servizi ovvero, ricorrendo alla catalogazione di GIANNINI, in una concessione di produzione.

Un primo esempio della mutata prospettiva è anzitutto il D.M. 31 dicembre 1983 (“Individuazione delle categorie dei servizi pubblici locali a domanda individuale”[19]), il quale elenca gli stabilimenti balneari tra le categorie dei servizi pubblici locali a domanda individuale. Si legge infatti nella premessa al medesimo decreto ministeriale, che in tale categoria dovevano ricomprendersi «tutte quelle attività gestite direttamente dall’ente, che siano poste in essere non per l’obbligo istituzionale, che vengono utilizzate a richiesta dell’utente e che non siano state dichiarate gratuite per legge nazionale o regionale».

In secondo luogo, nella segnalazione del 28 ottobre 1998, AS152 (Misure di revisione e sostituzione di concessioni amministrative), l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, nel sottolineare che le concessioni amministrative «possono causare distorsioni gravi della concorrenza non sempre giustificate da esigenze di interesse generale», evidenziava che le stesse sono «sovente impiegate come strumenti di regolazione attraverso i quali viene discrezionalmente limitato l’accesso al mercato ad un numero circoscritto di imprese e sono riconosciuti diritti speciali o esclusivi che pongono le imprese concessionarie in posizione privilegiata rispetto agli altri operatori economici. Le concessioni, inoltre, attribuiscono all’amministrazione concedente una serie di poteri idonei ad incidere in modo consistente sull’attività di impresa del concessionario». Nei riguardi delle concessioni di beni demaniali e del patrimonio indisponibile veniva auspicato dall’AGCM l’attenuazione «di alcuni tratti della loro disciplina che provocano eccessive alterazioni del mercato», in relazione sia al rilascio di nuove concessioni, sia al rinnovo di quelle esistenti. L’Authority elencava quindi le misure concorrenziali da intraprendere: 1) riduzione della discrezionalità amministrativa nella scelta dei concessionari; 2) procedure di gara ad evidenza pubblica aventi cadenza temporale.

Appare di non poco conto il rilievo che, nella segnalazione AS152/1998, veniva attribuito agli investimenti effettuati dal concessionario uscente. Secondo l’Authority, il valore degli investimenti dovrebbe essere posto a base d’asta. L’attenzione agli investimenti è rilevante perché costituisce un indice decisivo del mutamento di prospettiva: dal sedime demaniale al compendio produttivo; oggetto della concessione viene così inteso essere il secondo e non soltanto il primo, cosicché entrambi, costituendo un bene unitario, andrebbero messi a gara anche quando si tratti di rinnovare le concessioni demaniali esistenti.

È in tale ottica che il favor riservato al concessionario al mantenimento della titolarità della propria azienda, al quale era funzionale il c.d. diritto di insistenza ex art. 37 cod. nav., finisce per essere letto come un ostacolo alla libertà di stabilimento di nuovi operatori nel mercato rilevante, quello cioè delle attività economiche turistico-ricreative.

4. (segue): l’interpretazione comunitariamente orientata del diritto di insistenza.

Le regole dell’evidenza pubblica sono state da sempre ritenute applicabili anche alle procedure di affidamento delle concessioni demaniali marittime. Da un lato, la regola della concorsualità si ricava dall’art. 37 cod. nav., dall’altro lato, in subiecta materia, trova applicazione in via analogica il principio dell’evidenza pubblica desumibile dall’art. 3, comma 1, R.D. 18 novembre 1923 n. 2440 e dall’art. 37 R.D. 23 maggio 1924 n. 827 in virtù dei quali i contratti dai quali derivi una entrata debbono essere preceduti da pubblici incanti[20].

Come anticipato, il punto di frizione rispetto ai principi di derivazione comunitaria veniva però individuato nella previsione del c.d. diritto di insistenza di cui all’art. 37 cod. nav., nonché la regola del rinnovo automatico previsto dalla c.d. legge Baldini, in virtù della quale si è giunti alla sostanziale equiparazione tra il regime delle locazioni commerciali e quello dei beni demaniali marittimi.

In una prima fase, la giurisprudenza amministrativa, nell’evidenziare il contrasto tra il c.d. diritto di insistenza e i principi di derivazione comunitaria in tema di libertà di stabilimento, ha però offerto una lettura comunitariamente orientata delle due ricordate disposizioni. Nel 2005, in particolare, la Sezione VI del Consiglio di Stato affermava il principio secondo cui, anche nel caso di rinnovo di concessioni demaniali marittime, «l’obbligo di dare corpo a forme idonee di pubblicità deriva in via diretta dai principi del Trattato dell’Unione Europea, direttamente applicabili a prescindere dalla ricorrenza di specifiche norme comunitarie o interne, in guisa da tenere in non cale disposizioni interne di segno opposto» (Cons. St., Sez. VI, 25 gennaio 2005,  n. 168[21]). Secondo il Consiglio di Stato il carattere universale e cogente dei principi comunitari, posti a tutela della concorrenza e che trovano attuazione nella normativa sugli appalti pubblici, sarebbe stato confermato dalla prassi comunitaria in tema di concessioni e segnatamente dalla comunicazione della Commissione europea del 12.4.2000, pubblicata in Gazzetta ufficiale n. C 121 del 29/04/2000, sia dalla circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri- Dipartimento per le politiche Comunitarie n. 945 dell’1 marzo 2002. Ad avviso della VI Sezione, i principi comunitari, posti a tutela della concorrenza (e che, nell’ottica dell’art. 97 Cost., garantiscono altresì il buon andamento della P.A.), andavano perciò applicati anche alle procedure di affidamento dei beni pubblici, ivi compresi quelli del demanio marittimo. Da qui la necessità di dare adeguata pubblicità alle domande di concessioni demaniali. Dal momento che l’art. 18 reg. esec. cod. nav. stabilisce che debbono essere pubblicate le domande di concessioni di particolare importanza per l’entità o per lo scopo, l’interpretazione comunitariamente orientata di tale disposizione ne imponeva l’applicazione non solo nel caso di nuove domande di concessione, ma anche nel caso di rinnovo di concessioni già scadute o in scadenza. In caso contrario, il diritto di insistenza contemplato dall’art. 37, comma 2°, ult. periodo, cod. nav. si sarebbe tradotto in un privilegio del concessionario in contrasto con i principi di derivazione comunitaria[22]. L’applicazione alle procedure di affidamento delle concessioni di beni pubblici delle regole dell’evidenza pubblica di derivazione comunitaria troverebbe presupposto sufficiente «nella circostanza che con la concessione di area demaniale marittima si fornisce un’occasione di guadagno a soggetti operanti sul mercato» (Cons. St., Sez. VI, sent. n. 168/2005[23]). Nella sentenza n. 168 del 2005 veniva quindi osservato che, in base all’interpretazione comunitariamente orientata del diritto di insistenza, deve ritenersi che:

a) le condizioni offerte da concessionario uscente e gli altri operatori aspiranti all’area demaniale avrebbero dovuto essere effettivamente equipollenti “sul piano della rispondenza agli interessi pubblici”;

b) la procedura di rinnovo della concessione in scadenza avrebbe dovuto essere pubblicizzata in modo adeguato così da garantire l’effettività della par condicio tra operatori economici, limitando per quanto possibile che il concessionario uscente fosse preferito a quest’ultimi in virtù del solo diritto di insistenza.

In seguito, con la decisione n. 5765 del 25 settembre 2009, sempre la Sezione VI precisava che l’obbligo di osservare i principi sull’evidenza pubblica gravava sull’Amministrazione concedente anche nel caso di rinnovo di concessioni demaniali marittime con finalità turistico-ricreative, ancorché l’art. 1 D.L. 5 ottobre 1993, n. 400 conv. in l. 4 dicembre 1993, n. 494 come novellato dall’art. 10 l. n. 88/2001 avesse previsto il rinnovo automatico del relativo titolo concessorio. Ad avviso della Sezione VI, infatti, la previsione del rinnovo automatico non ostava a che, alla scadenza della concessione, potessero essere presentate domande di operatori economici in concorrenza con il concessionario uscente. Dall’art. 37 cod. nav. sarebbe ricavabile la regola della concorrenzialità nelle procedure di affidamento, da cui discenderebbe la necessità di dare adeguata pubblicità alle concessioni in scadenza, in modo da consentire la partecipazione alla procedura di rinnovo di ulteriori aspiranti, a garanzia sia della concorrenza, sia dell’interesse dell’Amministrazione di affidare il bene al miglior offerente[24].

5. Sulla procedura d’infrazione n. 2008/4908 avviata dalla Commissione europea nei confronti della Repubblica Italiana. Il regime transitorio introdotto dall’art. 1, comma 18, D.L. n. 194/2009 conv. in l. n. 25/2010.

Nonostante il tentativo del Giudice amministrativo di offrire un’interpretazione comunitariamente orientata della normativa settoriale, l’aporia tra principi comunitari e diritto di insistenza (a cui si correla il diritto al rinnovo automatico delle concessioni in scadenza ex l. n. 10/2001) è stata ritenuta insanabile a seguito dell’emanazione della Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio relativa ai servizi nel mercato interno n. 06/123/CE del 12 dicembre 2006[25]. La c.d. Direttiva servizi o Bolkestein[26] è invero diretta a istituire un quadro giuridico generale volto a garantire la libera circolazione dei servizi nel mercato unico, eliminando ostacoli “alla libertà di stabilimento dei prestatori negli Stati membri e alla libera circolazione dei servizi tra Stati membri” (così il 5° considerando). In questa prospettiva il legislatore comunitario ha inteso disciplinare anche le autorizzazioni il cui numero sia limitato “per via della scarsità delle risorse naturali” (62° considerando). In tale considerando, le linee di intervento della Direttiva n. 06/123/CE sono infatti dirette a garantire:

i) il principio di concorsualità tra gli aspiranti all’utilizzazione economica delle risorse; principio cui fanno da corollario i principi di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza;

ii) l’adeguatezza e la proporzionalità della durata dell’autorizzazione rispetto alla necessità di garantire la remunerazione degli investimenti compiuti dal prestatore, principio cui fanno da corollario il divieto di rinnovo automatico e l’esclusione di ragioni di preferenza a favore del prestatore uscente[27].

Il citato 62° è stato attuato all’art. 12 (“Selezione tra diversi candidati”), il quale è specificatamente dedicato alle ipotesi in cui il numero di «autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili»[28].

Ebbene, secondo la Commissione U.E., nell’ambito applicativo dell’art. 12 della Direttiva servizi dovrebbero essere ricondotte anche le concessioni di beni pubblici[29]. Ritenendo pertanto che le disposizioni della Direttiva servizi non fossero compatibili con il c.d. diritto di insistenza di cui all’art. 37, comma 2°, cod nav., la Commissione C.E. apriva, ai sensi dell’art. 258 TFUE, la procedura di infrazione comunitaria n. 2008/4908); il 2 febbraio 2009 veniva così notificata alla Repubblica Italiana una lettera di costituzione in mora (rif. SG(2009) D/00491). La Commissione C.E. esprimeva infatti il parere che la normativa nazionale, nel prevedere il diritto di insistenza a favore del concessionario uscente nelle procedure di affidamento di concessioni demaniali marittime, fosse contraria agli obblighi scaturenti dall’art. 43 del Trattato di Roma (ora art. 49 TFUE[30]) in materia di libertà di stabilimento. Con nota del 4 agosto 2009 la Direzione generale del mercato interno e dei servizi della Commissione Europea contestava che il c.d. diritto di insistenza previsto dall’art. 37 cod. nav. fosse contrario, oltre che all’art. 43 TUE, anche all’art. 12 (“Selezione tra diversi candidati“) della Direttiva Bolkestein. L’art. 37 cod. nav. non avrebbe garantito una procedura di selezione imparziale e trasparente, difettando adeguata pubblicità sul suo avvio, svolgimento e completamento. Così pure, a giudizio della Commissione Europea, il rinnovo automatico delle concessioni in scadenza, previsto dall’art. 01, comma 2, D.L. n. 400/1993 conv. in l. n. 494/1993, sarebbe stato contrario al § 2 del medesimo art. 12 Dir. 123/2006/CE. L’ordinamento interno italiano accordava agli operatori economici già stabilitisi in Italia privilegi tali da dissuadere o da impedire l’accesso al mercato rilevante di nuovi operatori economici. Da qui, in conclusione, la violazione dell’art. 49 TFUE, il quale vieta non soltanto le discriminazioni palesi in base alla cittadinanza, o alla sede per quanto riguarda le società, ma anche qualsiasi discriminazione dissimulata che, pur fondandosi su altri criteri di distinzione, produca lo stesso effetto. Nel caso di concessioni demaniali marittime, osservava ancora la Commissione Europea, non ricorreva nessuno dei casi previsti agli artt. 51 e 52 TFUE in presenza de quali sarebbe stato ammesso derogare al principio di libertà di stabilimento (cfr. art. 51: attività che, sia pure occasionalmente, partecipino all’esercizio di pubblici poteri[31]; art. 52: motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica[32]).

6. (segue): l’abrogazione del c.d. diritto di insistenza e la proroga delle concessioni demaniali marittime sino al 2020.

Al fine di ovviare alle contestazioni di cui alla procedura di infrazione n. 2008/4908, il Governo Italiano, anziché procedere al riordino complessivo della materia delle concessioni demaniali marittime con finalità turistico-ricreative, optava per una soluzione “tampone“.

Infatti, con l’art. 1, comma 18, D.L. 30 dicembre 2009, n. 194 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative) conv. in legge 26 febbraio 2010, n. 25, «nelle more» – si legge nel preambolo della medesima disposizione normativa – «del procedimento di revisione del quadro normativo in materia di rilascio delle concessioni di beni demaniali marittimi con finalità turistico-ricreative», veniva disposta l’abrogazione dell’art. 37, secondo comma, secondo periodo, cod. nav. (nella parte in cui veniva previsto il c.d. diritto di insistenza: «è altresì data preferenza alle precedenti concessioni, già rilasciate, in sede di rinnovo rispetto alle nuove istanze»); al contempo però veniva introdotto un regime transitorio a favore dei concessionari uscenti, venendo prorogata la durata dei titoli concessori in essere al 30 dicembre 2009 sino 31 dicembre 2015. Termine poi ulteriormente prorogato dall’art. 34-duodecies D.L. 18 ottobre 2012, n. 179 conv. in legge 17 dicembre 2012, n. 221 sino al 31 dicembre 2020 (vedremo infra che sia la proroga del D.L. n. 194/2009 che la successiva proroga della proroga del 179/2012 appaiono ragionevoli e compatibili con i principi comunitari e costituzionali).

7. (segue): il superamento della regola del rinnovo tacito delle concessioni demaniali turistico-ricreative di durata sessennale .

Nell’abrogare il c.d. diritto di insistenza l’art. 1, comma 18, D.L. n. 194/2009 conv. in legge n. 25/2010, faceva invero salva la regola del rinnovo automatico delle concessioni demaniali marittime turistico-ricreative, introdotta dall’art. 10 legge n. 88/2001. Più precisamente, l’art. 1, comma 18, D.L. n. 194/2009, conv. in l. n. 25/2010, faceva salvo il comma 4-bis dell’art. 03 del D.L. n. 400/1993, conv. in l. n. 494/1993, il quale stabiliva che le concessioni demaniali marittime potessero «avere durata superiore a sei anni e comunque non superiore a venti anni», fermo però restando la regola del rinnovo automatico tacito delle concessioni previsto dall’art. 01, comma 2°, del medesimo D.L. n. 400/1993 conv. in legge n. 494/1993, come novellato dalla ricordata Legge Baldini.

Con lettera di messa in mora complementare 2010/2734 del 5 maggio 2010, la Commissione Europea contestava pertanto al Governo Italiano che il comma 18° dell’art. 1 D.L. n. 194/2009 conv. in legge n. 25/2010 producesse l’effetto di ripristinare la normativa che si intendeva invece abrogare. Nella medesima lettera di messa in mora veniva ribadita l’incompatibilità del regime di rinnovo automatico con i principi in tema di libertà di stabilimento di cui all’art. 49 TFUE (già art. 43 del Trattato di Roma) e ora positivizzati nella Direttiva servizi. Nella nota del 5 maggio 2010, veniva espressamente evidenziato come le concessioni di beni pubblici marittimi «costituiscano autorizzazioni il cui numero è limitato ai sensi dell’art. 12 della direttiva servizi».

Non solo. Secondo la Commissione Europea, quand’anche si ritenesse non applicabile l’art. 12 della Direttiva servizi, le disposizioni normative, che prevedono la possibilità del rinnovo delle concessioni marittime a favore dell’operatore uscente, «devono essere considerate contrarie al principio della libertà di stabilimento di cui all’art. 49 TFUE».

Allo scopo di porre fine alla messa in mora complementare, la c.d. Legge comunitaria 2010 (Legge 15 dicembre 2011, n. 217) disponeva, all’art. 11, comma 1°, lett. a), l’abrogazione dell’art. 01, comma 2, D.L. 5 ottobre 1993, n. 400 conv. in Legge 4 dicembre 1993, n. 494, venendo così soppresso il regime di rinnovo automatico di sei anni in sei anni, introdotto nel corpus del medesimo D.L. n. 400/1993 dalla c.d. legge Baldini (legge 16 marzo 2001, n. 88).

8. (segue): i tentativi delle Regioni di restaurare l’automatismo dei rinnovi.

Nelle more della riforma settoriale preconizzata all’art. 1 comma 18 D.L. n. 194/2009 conv. in l. n. 25/2010, alcune Regioni hanno tentato di promuovere, al di fuori di leggi cornice di fonte statale, mini-riforme della disciplina settoriale, aventi quale comune denominatore il rinnovo automatico delle concessioni in scadenza oltre il termine del 31 dicembre 2015[33].

Tale iniziative, sottoposte al giudizio della Corte Costituzionale con ricorsi di legittimità costituzionale promossi in via principale dal Governo, non ne hanno tuttavia superato il controllo di costituzionalità.

Nel leading case definito dalla sentenza n. 180 del 20 maggio 2010, relativo alla legge della Regione Emilia-Romagna che riconosceva a favore dei titolari di concessioni demaniali marittime turistico-ricreative la possibilità di richiedere, entro il 31 dicembre 2009, la proroga della durata della concessione fino ad un massimo di 20 anni a partire dalla data di rilascio, la Corte Costituzionale ha ritenuto che quest’ultima norma fosse costituzionalmente illegittima violando l’art. 117, comma 1°, Cost. per contrasto con i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario in tema di diritto di stabilimento e di tutela della concorrenza.

Così come ritenuto dalla Commissione Europea nella procedura d’infrazione n. 2008/4908 (procedura peraltro richiamata dalla Corte Cost. al fine di avvalorare le proprie conclusioni), l’automatismo della proroga della concessione in scadenza «determina una disparità di trattamento tra gli operatori economici in violazione dei principi di concorrenza, dal momento che coloro che in precedenza non gestivano il demanio marittimo non hanno la possibilità, alla scadenza della concessione» (sent. n. 180/2010).

Né, a giudizio della Corte Costituzionale, la gravità di detta violazione sarebbe stata attenuata dal fatto che la proroga della concessione fosse stata subordinata dal legislatore regionale alla presentazione da parte del richiedente di un programma di investimenti per la valorizzazione del bene dato in concessione[34].

Tale indirizzo è stato confermato dalle successive pronunce della medesima Corte Costituzionale (v. sentt. n. 233 del 1° luglio 2010[35]; n. 340 del 26 novembre 2010[36]; n. 213 del 18 luglio 2011[37]).

I recenti orientamenti della Corte Costituzionale avvalorano pertanto la tesi della ricorrenza, in tema di demanio marittimo, della competenza legislativa statale esclusiva, in quanto diretta a tutelare la concorrenza (art. 117, comma 2, lett. e), Cost.). Ma la competenza dello Stato in subiecta materia è invero radicata anche in virtù del fatto che, come osservato sempre dalla Corte Costituzionale, la disciplina del demanio rientra nella materia dell’ordinamento civile, cosicché essa è da ritenersi riservata alla potestà legislativa esclusiva statale ex art. 117, comma 2, lett. l) Cost. (cfr. Corte Cost., sent. n. 235 del 22 luglio 2011[38]).

9. Compatibilità con il diritto comunitario della proroga ex lege del termine di durata delle concessioni demaniali marittime.

9.1. Prima di procedere alla critica della tesi sostenuta dalla Commissione Europea, secondo cui la Direttiva servizi sarebbe applicabile alle concessioni di beni pubblici, è utile compiere un’ultima ricognizione del formante circa la compatibilità con i principi comunitari della proroga legale del termine di durata delle concessioni demaniali.

Si è visto sopra che, con la lettera di messa in mora complementare, la Commissione Europea aveva censurato l’art. 10 della legge n. 88/2001 (c.d. Legge Baldini), mentre non aveva appuntato alcuna osservazione circa la prorogatio ex lege recata dal comma 18° dell’art. 1 D.L. n. 194/2009 conv. in legge n. 25/2010.

È inoltre noto che la procedura d’infrazione n. 2008/4908 avviata dalla Commissione europea nei confronti della Repubblica Italiana, veniva archiviata il 27 febbraio 2012, allorché, per effetto dell’art. 11 legge n. 217/2011, veniva definitivamente soppresso anche il diritto di rinnovo delle concessioni demaniali marittime previsto dalla Legge Baldini.

Il fatto che la Commissione Europea non abbia mosso critiche al regime transitorio ex comma 18° cit. è tuttavia comprensibile.

9.2. In una vicenda, per certi aspetti analoga a quella che ci occupa, in relazione cioè alla disciplina degli affidamenti del servizio pubblico di distribuzione del gas naturale, sottoposto a cessazione anticipata in quanto compiutosi senza gara, la Corte di Giustizia C.E. aveva affermato la compatibilità della normativa interna di carattere transitorio e della successiva proroga del medesimo regime; ciò in quanto andava riconosciuto alla disciplina nazionale il carattere necessitato al fine di tutelare il legittimo affidamento degli operatori economici e il principio di certezza del diritto[39].

Dalla giurisprudenza comunitaria emerge dunque che il prolungamento di un periodo transitorio, se ragionevolmente volto a garantire la temporanea sopravvivenza di affidamenti incompatibili con il diritto comunitario, è espressivo del principio di certezza del diritto, di cui il medesimo diritto comunitario è portatore. In applicazione di tale principio è dunque legittima la normativa interna che consenta alle parti di un contratto, destinato a cessare per incompatibilità con lo jus superveniens, di disporre del tempo necessario per sciogliere il loro vincolo negoziale, onde poter regolare in modo soddisfacente sul piano economico i loro reciproci rapporti[40].

Di seguito si illustreranno le ragioni per cui va ritenuta legittima (nel senso di compatibilità con l’ordinamento comunitario e di ragionevolezza dal punto di vista costituzionale) sia l’introduzione del regime transitorio ad opera dell’art. 1, comma 18, D.L. n. 194/2009, sia la sua successiva proroga ad opera dell’art. 34-duodecies D.L. n. 179/2012[41].

10. (segue): compatibilità tra regime transitorio e diritto comunitario. Il carattere non self executing della Direttiva servizi.

10.1. Quanto alla compatibilità della proroga della durata delle concessioni demaniali marittime con l’art. 12 della Direttiva servizi, non può non concordarsi con l’indirizzo maggioritario nella giurisprudenza del G.A., secondo cui tale direttiva non sarebbe self-executing. Tale indirizzo è stato inaugurato dal T.A.R. Campania, Sezione staccata di Salerno, con la sentenza 27 settembre 2011, n. 1586, a cui ha poi aderito la VI Sezione del Consiglio di Stato (sentenze n. 6682 del 27 dicembre 2012 e n. 1307 del 17 marzo 2014).

Osserva il T.A.R. Salerno come l’art. 12 della Direttiva servizi detti una pluralità di norme non tutte però self-executing[42]. Più in particolare, se il divieto di rinnovo automatico e l’esclusione del diritto di insistenza debbono ritenersi immediatamente efficaci, trattandosi di obblighi di non fare, a contenuto pertanto negativo per la cui osservanza non occorre un atto di recepimento dello Stato membro[43]; al contrario, non possono ritenersi norme self executing quelle intese a garantire il principio concorsualità tra aspiranti al rilascio delle autorizzazioni contingentate nel numero. Infatti, rileva il T.A.R. Salerno, con riferimento ai contenuti dell’autorizzazione, «il legislatore comunitario non pone una disciplina dettagliata e specifica, suscettibile di applicazione immediata e tale da potere essere direttamente trasposta nell’ordinamento nazionale, senza alcun margine di manovra da parte del legislatore nazionale» (T.A.R. Campania Salerno, sent. n. 1586/2011). In effetti, l’art. 12 della Direttiva servizi si limita a riferire di “una durata limitata adeguata”, ma la specifica quantificazione della durata dell’autorizzazione non può che spettare al legislatore nazionale; da qui, secondo il T.A.R. Salerno, la non immediata operatività della disposizione comunitaria, invece «occorrendo il necessario recepimento, attraverso disciplina concreta e specifica, da parte dello Stato membro» (T.A.R. Campania Salerno, sent. n. 1586/2011).

La prorogatio ex lege non contrasta inoltre con l’art. 12 Direttiva n. 2006/123/CE, trattandosi di «una disciplina di durata temporale limitata e di applicazione limitata quanto ai destinatari (si riferisce alle sole autorizzazioni in corso alla data di entrata in vigore del decreto), che è dettata nelle more del necessario completamento (e recepimento), da parte del legislatore nazionale, della disciplina recata dall’articolo 12 della Direttiva» (T.A.R. Campania Salerno, Sez. I, sent. n. 1586/2011 cit.). Né, osserva il T.A.R. Salerno, la disciplina transitoria viola il divieto di rinnovo automatico posto dall’art. 12 Direttiva n. 2006/123/CE. Da un lato, la proroga ex lege è strumentale all’emanazione di una disciplina normativa della materia di carattere unitario, di livello cioè nazionale; dall’altro lato, la medesima proroga intende tutelare gli attuali concessionari riconoscendo un «periodo di comporto (peraltro limitato e non prorogabile) idoneo a ridurre gli effetti negativi di un sopravvenuto mutamento di disciplina anche in relazione alle prospettive di remunerazione del capitale investito» (T.A.R. Campania Salerno, Sez. I, sent. n. 1586/2011 cit.[44]).

Infine, secondo il T.A.R. Salerno, la disciplina transitoria dispone appunto una proroga, eccezionale e temporanea, della durata delle concessioni in essere e non il loro rinnovo automatico: «il legislatore, dunque, non attua un “rinnovo” attraverso la previsione di una nuova concessione che si sostituisce alla precedente in via automatica e senza procedura selettiva. Agisce piuttosto sulla concessione in essere, non rinnovando l’atto ma limitandosi ad allungarne il termine di efficacia, così disponendone una mera “proroga”». Di talché, la disciplina transitoria appare frutto «di una scelta ragionevole del legislatore nazionale, finalizzata non all’elusione della disposizione comunitaria ma ad una più efficace attuazione (da realizzarsi attraverso l’emanazione di una completa ed organica regolamentazione nazionale della materia) dei principi da essa affermati, nel contempo consentendo agli attuali concessionari anche l’ammortamento degli investimenti, interesse quest’ultimo , per come si è sopra detto, comunque non estraneo alle valutazioni dell’organo comunitario» (T.A.R. Campania Salerno, Sez. I, 27 settembre 2011,  n. 1586).

Tale indirizzo è stato in seguito fatto proprio anche dalla VI Sezione del Consiglio di Stato, la quale, prendendo spunto dal precedente del TAR Salerno ha appunto osservato che l’art. 12 della Direttiva n. 2006/123/CE «nel suo complesso, non presenta, i caratteri della direttiva dettagliata e particolareggiata e, dunque, self-executing» (sent. n. 6682/2012, cit.). Cosicché, conclude la VI Sezione, sino alla scadenza del periodo transitorio resterà intangibile il diritto del concessionario a conservare la titolarità del bene demaniale, non potendo essere disapplicato l’art. 1, comma 18°, D.L. n. 194/2009 conv. in legge n. 25/2010 per pretesa contrarietà con i principi comunitari e con l’art. 12 Direttiva servizi, «sia perché la procedura di infrazione è stata archiviata, sia perché la Corte costituzionale ha espressamente affermato che “la finalità del legislatore è stata quella di rispettare gli obblighi comunitari in materia di libera concorrenza”, ma soprattutto perché la direttiva 123/06/CE, che integra i principi di diritto comunitario, non è di diretta applicazione» (Cons. St., Sez. VI,  n. 6682/2012).

10.2. Le conclusioni cui è giunta la giurisprudenza amministrativa appaiono condivisibili. Effettivamente la direttiva Bolkestein è una direttiva priva di carattere precettivo diretto. Ha un carattere deontico fortissimo, come è tipico delle direttive, vale a dire esprime un principio di fortissimo valore, però il contenuto normativo, che deve essere espresso da questo principio, non lo fornisce direttamente la direttiva, bensì gli atti applicativi del legislatore nazionale. Di per sé la Direttiva servizi non detta però un regime normativo sostituivo, in modo esauriente, di quello nazionale in materia.

Né le suddette conclusioni sono scalfite dalle disposizioni attuative nel nostro ordinamento della Direttiva servizi. Infatti, con il D.Lgs. 26 marzo 2010 n. 59 (recante appunto “Attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno“), il legislatore interno ha sì inteso attuare anche l’art. 12 della ridetta direttiva, ma nel riprodurne le norme all’art. 16 (“Selezione tra diversi candidati”) ha tuttavia omesso di disciplinare le concessioni demaniali marittime, circostanziando le indicazioni non self-executing della disposizione comunitaria. Cosicché, la normativa in tema di affidamento di concessioni demaniali marittime deve tuttora ritenersi non regolamentata, come del resto riconosciuto nel D.L. n. 194/2009, nel quale la prorogatio viene appunto giustificata dalla necessità di approntare la “revisione del quadro normativo in materia di rilascio delle concessioni di beni demaniali marittimi, lacuali e fluviali con finalità turistico-ricreative e sportive”.

11. (segue): ragionevolezza del regime transitorio rispetto dal punto di vista costituzionale.

Quanto alla legittimità del regime transitorio dal punto di vista costituzionale, è stato osservato dalla Sezione VI del Consiglio di Stato come la 1° proroga al 2015 coincidesse con la durata minima delle concessioni, costituendo perciò «un’ultima proroga, la cui ragione può essere individuata nella necessità di far rientrare dagli investimenti gli operatori che avevano comunque fatto affidamento sulla precedente legislazione in materia di diritto di insistenza, dando loro il tempo necessario all’ammortamento delle spese sostenute» (Cons. St., Sez. VI, 16 maggio 2013,  n. 2663, secondo cui «il legislatore ha effettuato un contemperamento degli interessi coinvolti, operando un adeguamento ai principi comunitari senza pregiudicare gli interessi degli operatori del settore»). Del resto – ricorda sempre la VI Sezione nell’appena citato precedente – la Corte costituzionale ha già avuto modo di ritenere corretta la predisposizione di una disciplina transitoria «per impedire una serie di ostacoli operativi e concorsuali con rischi – connessi all’immobilizzo di ogni acquisizione di mercato – per il successivo reinserimento e quindi per la sopravvivenza di categorie di imprese esistenti e legittimamente operanti» (Corte. Cost., 31 luglio 2002, n. 413).

Ma un argomento decisivo a favore della costituzionalità del regime di prorogatio viene ricavato, sempre dalla Sezione VI del Consiglio di Stato (sent. n. 6682 del 27 dicembre 2012, e, più di recente, sent. n. 1307 del 17 marzo 2014), dal fatto che la Corte Costituzionale con sentenza 18 luglio 2011, n. 213, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale di alcune norme contenute in leggi regionali, aventi ad oggetto la proroga di concessioni demaniali marittime, ha riconosciuto al comma 1° dell’art. 18 D.L. n. 194/2009 conv. in legge n. 25/2010 “carattere transitorio”, in attesa della revisione della legislazione in materia di rilascio delle concessioni di beni demaniali marittimi. La finalità del legislatore – viene osservato nella citata sentenza della Corte costituzionale «è stata, dunque, quella di rispettare gli obblighi comunitari in materia di libera concorrenza e di consentire ai titolari di stabilimenti balneari di completare l’ammortamento degli investimenti nelle more del riordino della materia, da definire in sede di Conferenza Stato-Regioni» (sent. n. 213/2011 cit.).

Da qui, l’inferenza secondo cui, avendo costituito il citato comma 18° il parametro di giudizio per valutare la costituzionalità delle norme regionali, sarebbe «certamente singolare poi, se non proprio paradossale, che la Corte abbia assunto a parametro di giudizio, per la dichiarazione di incostituzionalità, una norma intrinsecamente incostituzionale» (Cons. St., Sez. VI, sent. n. 6682/2012 cit.[45]).

Ma per le stesse ragioni va ritenuta legittima anche la seconda proroga, disposta dal ricordato art. 34-duodecies D.L. n. 179/2012, tenuto conto che il ciclo di vita di uno stabilimento balneare ha una durata indefinibile e che gli investimenti compiuti dai concessionari sono ingentissimi. È infatti noto che gli investimenti riguardino, oltre che l’offerta di servizi alla clientela, la manutenzione ordinaria e straordinaria delle fabbriche, se non anche il loro acquisto. È del tutto evidente che anche quest’ultima proroga sarebbe inadeguata nel caso di un imprenditore che fosse ad esempio subentrato nella titolarità di una concessione nel 2009, acquistando la fabbrica incidente sul demanio al prezzo di centinaia di migliaia d’euro, ricorrendo a mutui fondiari di durata ultradecennale.

12. Critica della tesi, sostenuta dalla Commissione Europea, circa l’applicabilità della Direttiva servizi alle concessioni demaniali marittime.

La tenuta della disciplina transitoria, recata dal comma 18° dell’art. 1 D.L. n. 194/2009, dovrebbe consentire l’approfondimento della questione, centrale e presupposta (ma ad oggi non del tutto esplorata), dell’applicabilità della Direttiva servizi alle concessioni di beni demaniali.

Abbiamo già avuto modo di anticipare le ragioni, in base alle quali dovrebbe escludersi l’applicazione della Direttiva n. 2006/123/CE all’ambito delle concessioni demaniali.

Il bene demaniale, infatti, non è ex se un bene produttivo. È l’azienda del concessionario ad imprimere al bene pubblico una destinazione produttiva o, melius, a incorporare il bene pubblico nell’azienda privata. Ma anche dopo l’incorporamento del bene demaniale nell’azienda del concessionario, il primo continua a restare area di sedime. È l’azienda del concessionario, e non la zona demaniale su cui tale azienda insiste, a produrre servizi.

Richiamando ancora una volta la ricordata catalogazione gianniniana delle concessioni di beni demaniali, la concessione dell’arenile demaniale non può ascriversi alla concessione di produzione, bensì in quella di beni stricto sensu. A differenza di una concessione mineraria, la cui finalità produttiva non può che essere una e soltanto una (e cioè lo sfruttamento delle risorse minerarie), nel caso di concessione demaniale marittima, la destinazione produttiva è determinata dal concessionario.

La concessione di beni del demanio marittimo non avviene infatti per l’acquisizione di servizi da parte della Autorità concedente.

Recentissimamente il Consiglio di Stato ha osservato, nel sostenere l’inapplicabilità del rito abbreviato degli appalti alle aste per l’affidamento in concessione di beni del demanio marittimo, che mediante tali procedure di gara l’Amministrazione persegue il fine di affidare in concessione un tratto di arenile, non ricorrendo invece un’ipotesi di acquisizione di lavori e servizi da parte della stessa Amministrazione, «con conseguente applicabilità solo dei principi generali, dettati in materia di contratti pubblici (trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità, ex art. 30, commi 1 e 3 del citato d.lgs. n. 163/2006), ma senza applicazione del rito abbreviato, di cui agli articoli 119 e 120 c.p.a.» (Cons. St., Sez. VI, 21 maggio 2014,  n. 2620).

Il fatto che sovente la legislazione regionale preveda la formazione di piani di utilizzazione degli arenili, così vincolando le scelte del concessionario a utilizzare il bene demaniale marittimo per usi, che sono oggi predeterminati dalla Autorità amministrativa, non contrasta con la suddetta conclusione.

In disparte il fatto che, nel caso di arenili demaniali da destinare a finalità turistico-ricreative, la pianificazione settoriale generalmente è descrittiva e non conformativa di destinazioni già impresse dai concessionari; ciò in disparte, la destinazione del bene demaniale marittimo a uno specifico uso per scelta dell’Autorità concedente non determina per questo soltanto che il bene demaniale divenga ex se produttivo, occorrendo pur sempre che su di esso venga ubicata l’azienda del concessionario.

Occorre semmai distinguere l’ipotesi in cui oggetto della concessione demaniale marittima sia l’area di sedime, dall’ipotesi in cui oggetto della concessione siano anche beni demaniali aventi destinazione produttiva. Può cioè accadere che la concessione demaniale non abbia ad oggetto il solo sedime demaniale, ma anche pertinenze demaniali ex art. 29 cod. nav. la cui destinazione produttiva è insita nel bene stesso (si pensi ad es. alle cabine).

In quest’ultimo caso, ove al bene pertinenziale sia già stata impressa dall’Autorità demaniale una specifica destinazione produttiva, saremmo di fronte a una concessione assimilabile a quella di produzione di gianniniana memoria.

Nei restanti casi, quando cioè al privato è concesso soltanto il sedime demaniale, si ha soltanto una interrelazione tra azienda privata e bene demaniale, che appare assimilabile all’occupazione di suolo pubblico o alla locazione di diritto privato.

La necessità di distinguere tra concessioni di suolo demaniale e concessioni di pertinenze demaniali (queste sì produttive di servizi) trova invero decisiva conferma nella recente, ma ormai consolidata, giurisprudenza della Sezione VI del Consiglio di Stato, in tema di determinazione dei canoni relativi alle concessioni demaniali marittime con finalità turistico-ricreative di cui all’art. 03 D.L. n. 400/1993 conv. in legge n. 494/1993.

13. (segue): la distinzione tra concessioni demaniali marittime di suolo e concessioni demaniali marittime di beni produttivi.

Con l’art. 1, comma 251, legge n. 296/2006, è stato novellato il comma 1° dell’articolo 03 del D.L. 5 ottobre 1993, n. 400 conv in l. 4 dicembre 1993, n. 494. Alla lettera b) del comma 1° dell’art. 03 cit. sono stati dettati nuovi criteri per la determinazione del canone annuo, venendo distinte:

da un lato, aree scoperte, aree occupate con impianti di facile rimozione e aree occupate con impianti di difficile rimozione (punto 1° della lettera b);

dall’altro lato, le c.d. pertinenze demaniali (punto 2° della lettera b).

Secondo il Consiglio di Stato (Sez. VI, 14 ottobre 2010, n. 7505), tutte le volte in cui sull’arenile demaniale insistano beni di difficile rimozione, che non sono però beni pubblici, perché realizzati dal privato, debbono comunque trovare applicazione i canoni tabellari previsti per le aree scoperte. Infatti, nel caso in cui al privato non venga concesso un bene produttivo, bensì un’area demaniale di per sé priva di destinazione produttiva, l’occupazione di essa deve essere assimilata al suolo di proprietà pubblica.

Ciò in quanto finalità della novella del 2006 «è quello di consentire all’Amministrazione di trarre giusti proventi dai beni di proprietà pubblica, ma non al di là dell’utilità che i beni stessi, in base alle caratteristiche loro proprie, sono idonei a fornire, con correlativa acquisizione di valore commerciale. Quando, pertanto, come nel caso di specie, la pertinenza demaniale marittima non sia di per sé idonea ad avere destinazione produttiva, deve ritenersi che la stessa – quando utilizzabile solo come supporto materiale di appoggio – sia assimilabile al suolo, di proprietà pubblica, indipendentemente dal fatto che sullo stesso siano installati immobili ad uso produttivo, il cui utilizzo compete a chi ne sia proprietario» (sent. n. 7505/2010).

Se così non fosse, l’Ente proprietario dell’area demaniale concessa a privati conseguirebbe un indebito arricchimento, atteso che il medesimo Ente trarrebbe dal bene «proventi, resi possibili solo dalla realizzazione del manufatto di proprietà privata» (sent. n. 7505/2010).

In base al suddetto indirizzo giurisprudenziale (che deve ormai ritenersi diritto vivente, v. in senso conforme le sentenze della Sezione VI del Consiglio di Stato n. 3308 e n. 3307 del 13 giugno 2013; n. 3196 del 10 giugno 2013; n. 626 del 1° febbraio 2013), quando oggetto della concessione demaniale marittima sia un bene pubblico non produttivo, ma venga consentito al concessionario di realizzare (e poi mantenere) sul suolo demaniale manufatti strumentali all’esercizio della propria azienda, si ha che, da un lato, il concessionario acquista la titolarità di un diritto superficiario, dall’altro lato, il sedime demaniale va assimilato al suolo pubblico.

14. (segue): realità della relazione giuridica intercorrente tra il concessionario e i beni, diversi da quelli demaniali, ubicati sul sedime demaniale.

14.1. Il titolo concessorio può consentire al concessionario di realizzare manufatti sul sedime demaniale. Si avranno così due beni: la costruzione ed il suolo, oggetto di distinti diritti di proprietà. In altri termini, viene a determinarsi una scissione orizzontale dell’assetto dominicale, nel senso che lo Stato mantiene la proprietà del suolo, mentre il concessionario acquista la proprietà superficiaria dell’opera sovrastante[46].

14.2. Secondo la prevalente giurisprudenza civile, il diritto del concessionario di realizzare e conservare la titolarità di beni sull’arenile demaniale configura un vero e proprio diritto di superficie. Il concessionario si trova ad essere investito di diritti sui beni superficiari di ampiezza non diversa da quelli riconosciuti al superficiario ex art. 952 ss. cod. civile.

Con specifico riferimento alle concessioni demaniali marittime a fini turistici comprensive della concessione ad aedificandum, è stato osservato che «il diritto del concessionario di uno stabilimento balneare, il quale abbia ricevuto, nell’ambito della concessione demaniale, anche la facoltà di costruire e mantenere sulla spiaggia una costruzione, più o meno stabile, e consistente in vere e proprie strutture edilizie o assimilate (sale ristoranti, locali d’intrattenimento o da ballo, caffè, spogliatoi muniti di servizi igienici e docce, ecc.) integra una vera e propria proprietà superficiaria, sia pure avente natura temporanea e soggetta ad una peculiare regolazione in ordine al momento della sua modificazione o cessazione o estinzione» (Cass., Sez. Trib., 26 gennaio 2007, n. 1718). Ed ancora: «il codice della navigazione non contiene una specifica disciplina in materia di costruzioni (autorizzate) sul suolo demaniale e che, operando, in virtù del rinvio di cui all’art. 1, le norme del codice civile sul diritto di superficie, colui che costruisce acquista la proprietà superficiaria a titolo originario» (Cass., SS.UU., 13 febbraio 1997, n. 1324).

14.3. Sono stati ritenuti indici della natura superficiaria dei diritti del concessionario di aree demaniali marittime sui beni dallo stesso realizzati:

a) la previsione della facoltà, per il concessionario, di costituire ipoteca sulle opere costruite sui beni demaniali oggetto di concessione (cfr. art. 41 cod. nav.[47]).

b) la disciplina prevista dagli artt. 46 cod. nav. e 30 reg. esec.[48];

c) la circostanza che, al cessare della concessione, i beni superficiari sono trasferiti ex lege al demanio ex art. 49 cod. nav., dal momento che il trasferimento di proprietà dei beni dal concessionario allo Stato alla scadere della concessione, presuppone implicitamente la signoria del concessionario sui medesimi beni[49].

La natura demaniale del suolo non può quindi ritenersi di ostacolo né alla costituzione in favore di privati, mediante concessione, di diritti reali che abbiano ad oggetto la fruizione del bene medesimo, né alla circolazione tra privati di tali diritti, che si atteggiano, nei rapporti privatistici, come diritti soggettivi perfetti. L’edificazione del manufatto da parte del concessionario di un’area demaniale, cui il provvedimento amministrativo attribuisca un diritto reale di edificare e di mantenere manufatti sull’area oggetto di concessione, «fa perciò sorgere in capo al concessionario stesso una vera e propria proprietà superficiaria (sia pure di natura temporanea, soggetta ad una peculiare regolazione in ordine al momento della sua modificazione, cessazione o estinzione)»(così Cass., Sez. trib., 20 novembre 2009, n. 24499; nello stesso senso Cass., Sez. VI, 18 febbraio 2014, n. 3761).

15. (segue): inoperatività dell’accessione ex art. 49 cod. nav. nel caso di rinnovo-vidimazione delle concessioni demaniali marittime.

Occorre infine considerare che, nelle già citate sentenze della Sezione VI del Consiglio di Stato (n. 3308 e n. 3307 del 13 giugno 2013; n. 3196 del 10 giugno 2013; n. 626 del 1° febbraio 2013; n. 3348 del 26 maggio 2010), viene affermato il principio secondo cui l’accessione ex art. 49 cod. nav. si ha soltanto nelle ipotesi in cui il titolo concessorio sia effettivamente cessato o in cui i manufatti siano stati realizzati sine titulo, non trovando invece applicazione nelle ipotesi di rinnovo, senza soluzione di continuità, del ridetto titolo concessorio. Ad avviso della Sezione VI, infatti, l’accessione di cui all’art. 49 cod. nav. non si verifica allorché «il concessionario abbia edificato sul suolo demaniale in base a regolare permesso di costruire e la concessione sia stata rinnovata più volte con istanza – e anche pagamento del canone – prima della relativa scadenza» (Cons. St., Sez. VI, 26 maggio 2010, n. 3348). Inoltre, sempre secondo la Sezione VI del Consiglio di Stato, nei casi in cui la concessione sia soggetta al rinnovo automatico, non può che trovare applicazione il regime derogatorio di cui al medesimo art. 49 cod. nav. il quale, per l’appunto, esclude l’acquisizione gratuita allorché «non sia diversamente stabilito nell’atto di concessione». Infatti, «detto inciso può giustificare l’inapplicabilità del principio dell’accessione gratuita – fortemente penalizzante per il diritto dei superficiari e per gli investimenti, che potrebbero contribuire alla valorizzazione del demanio marittimo – anche quando il titolo concessorio preveda, come nel caso di specie, forme di rinnovo automatico e preordinato in antecedenza rispetto alla data di naturale scadenza della concessione, tanto da configurare il rinnovo stesso – al di là del “nomen iuris” – come una vera e propria proroga, protraendosi il medesimo rapporto senza soluzione di continuità» (Cons. St., Sez. VI, sent. n. 3348/2010 cit.).

Per quanto precede è perciò evidente che, nel vigore dell’art. 37 cod. nav. e dell’art. 10 legge n. 88/2001, il rinnovo della concessione configurasse una sorta di “rinnovo-vidimazione”, non venendo meno il titolo originario che è appunto quello che si rinnova ex lege quanto alla sua durata.

16. Risorse pubbliche, risorse private e Direttiva servizi.

16.1. Nel contesto appena illustrato è evidente l’errore prospettico in cui è caduta la Commissione Europea. Anzitutto, muovendo dal presupposto che il demanio marittimo sia una risorsa naturale limitata, ma produttiva, non ha tenuto conto del fatto che ad essere produttivi non fossero i beni demaniali, ma le aziende private incidenti su di esso. Trattasi di una distinzione di non poco conto, visto che nessuna procedura di infrazione risulta essere stata aperta per contrarietà all’art. 49 TFUE dell’art. 28 (“Rinnovazione del contratto”) legge 27 luglio 1978, n. 392, il quale si applica anche ai beni pubblici locati a privati, quando detti beni appartengano, anziché al demanio o al patrimonio indisponibile, al patrimonio disponibile.

Anche il patrimonio disponibile dello Stato e degli altri enti pubblici non economici è una risorsa limitata; al contempo, il regime di rinnovo ex lege dei contratti di locazione impedisce lo stabilimento di nuovi operatori economici. Prendiamo ad esempio una delle tante vie della moda delle città italiane. La locazione ex lege n. 392/1978 di un immobile comunale che, lungo queste vie, fosse condotto da una rinomata sartoria costituirebbe anche essa una forma di restrizione alla concorrenza e di ostacolo alla libertà di stabilimento di altre sartorie? Evidentemente, no. Nel caso di locazioni commerciali la regolazione del mercato è rimessa al libero dispiegarsi del gioco della domanda e dell’offerta.

16.2. In secondo luogo, la Commissione Europea non ha tenuto conto del fatto che, in massima parte, tali fabbriche sono beni privati, di cui sono titolari gli attuali concessionari.

Alla Commissione Europea è infine sfuggito che la permanenza di tali beni nei patrimoni dei singoli concessionari era garantita proprio da quelle disposizioni, che sono state oggi soppresse in pretesa attuazione della Direttiva servizi: l’art. 37 cod. nav., da un lato, e l’art. 10 legge n. 88/2001, dall’altro.

16.3. Per una sorta di eterogenesi dei fini, l’applicazione alle concessioni demaniali marittime della Direttiva servizi, anziché favorire la libertà di stabilimento dei prestatori, determinerà, all’esito del periodo transitorio, la circolazione forzosa di aziende e di diritti reali superficiari dal patrimonio dei concessionari uscenti al patrimonio di quelli subentranti.

Unitamente ai beni immobili circoleranno inoltre anche beni immateriali, quali l’avviamento commerciale[50].

Nondimeno, tale esito non può ritenersi una conseguenza necessitata della Direttiva servizi.

17. Direttiva servizi e tutela delle libertà fondamentali sancite dalla Carta di Nizza. In particolare, la proprietà privata “europea”.

17.1. Al 15° considerando della Direttiva servizi si legge: «la presente direttiva rispetta l’esercizio dei diritti fondamentali applicabili negli Stati membri quali riconosciuti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e nelle relative spiegazioni, armonizzandoli con le libertà fondamentali di cui agli articoli 43 e 49 del trattato».

Tale considerando impone dunque di fornire un’interpretazione della Direttiva servizi compatibile con i diritti fondamentali riconosciuti dalla c.d. Carta di Nizza[51], nonché dalle Costituzioni degli Stati membri.

Ebbene tra i diritti fondamentali, elencati nel Titolo II della Carta di Nizza, viene indicato, all’art. 17, il diritto di proprietà. A differenza pertanto della Carta costituzionale italiana, la quale si occupa dello statuto della proprietà al Titolo III, il quale è dedicato ai Rapporti economici, l’art. 17 riconosce la proprietà come un diritto fondamentale, stabilendo che «ogni individuo ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquisito legalmente, di usarli, di disporne e di lasciarli in eredità. Nessuno può essere privata della proprietà se non per causa di pubblico interesse, nei casi e modi previsti dalla legge e contro il pagamento in tempo utile di una giusta indennità».

L’art. 17 della Carta di Nizza recepisce, riproducendolo, l’art. 1 del Primo protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, adottato il 20 marzo 1952 e reso esecutivo con legge 4 agosto 1955, n. 848[52].

La nozione di proprietà, contenuta all’art. 17 della Carta di Nizza, è invero ampia e appare assimilabile concetto anglosassone di proprietà, dove oggetto di proprietà è tutto, tanto da comprendere quella che è la proprietà commerciale, l’avviamento, il diritto d’autore[53]. La Carta di Nizza sostanzialmente non fa altro che codificare una serie di principi enunciati dalla Corte di Giustizia e dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo; principi che la Carta di Nizza ha tradotto, ma dandoli per presupposti.

Nella sentenza Hubert Wachauf, la Corte di Giustizia CE aveva significativamente affermato, in tema di diritto di proprietà, che «una disciplina comunitaria che avesse per effetto di spogliare l’affittuario, alla scadenza del contratto di affitto, del frutto del proprio lavoro o degli investimenti effettuati nell’azienda affittata, senza indennizzo, sarebbe in contrasto con le esigenze inerenti alla tutela dei diritti fondamentali nell’ordinamento giuridico comunitario» (sent. 13 luglio 1989, par. 19, in C-5/88, Hubert Wachauf[54]).

17.2. Calando i principi della sentenza Hubert Wachauf alla vicenda delle concessioni demaniali marittime, dovremmo allora ritenere che l’interpretazione più rispettosa dei principi di rango costituzionale europeo e nazionale sia quella di escludere l’applicazione della Direttiva servizi, tutte le volte in cui la gara abbia per oggetto non tanto il nudo arenile demaniale, ma l’azienda del concessionario.

In tale ipotesi si avrebbe un larvato esproprio, in carenza di esigenze di pubblica utilità; cosicché il medesimo spoglio apparirebbe contrario ai principi enunciati dalla ridetta sentenza Hubert Wachauf.

18. L’equo indennizzo del concessionario uscente all’esito delle gare pubbliche che si terranno successivamente al 2020.

Dalla sentenza Hubert Wachauf si ricava peraltro un ulteriore principio, a cui ricorrere ove si consolidasse la prospettiva della Commissione Europea sull’applicabilità della Direttiva servizi al settore che ci occupa.

Il depauperamento al patrimonio del concessionario uscente, che conseguirebbe al subentro di terzi nella titolarità del compendio aziendale, non potrà infatti che essere indennizzato.

Né potrebbe invocarsi l’applicazione dell’art. 49 (“Devoluzione delle opere non amovibili”) cod. nav., il cui comma 1° stabilisce che «salvo che sia diversamente stabilito nell’atto di concessione, quando venga a cessare la concessione, le opere non amovibili, costruite sulla zona demaniale, restano acquisite allo Stato, senza alcun compenso o rimborso, salva la facoltà dell’autorità concedente di ordinarne la demolizione con la restituzione del bene demaniale nel pristino stato».

Infatti, come evidenziato dalle ricordate sentenze della Sezione VI del Consiglio di Stato, il rinnovo automatico della concessione demaniale consolida in capo al concessionario la proprietà dei beni (inamovibili e non) legittimamente realizzati sull’arenile demaniale.

L’applicazione dell’art. 49 cod. nav., a cui sino al 2009 ostava il regime di rinnovo automatico ex comb. disp. art. 37 cod. nav. e art. 10 Legge Baldini, determinerà invece l’acquisizione di beni privati alla mano pubblica (per poi passare in mano ad altri soggetti privati) senza previsione di un indennizzo; il che è contrario sia all’art. 42 Cost., sia all’art. 1 del Primo Protocollo Addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, sia all’art. 17 della Carta di Nizza.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nell’affermare il principio dell’equo indennizzo a favore dei soggetti privati dei loro beni nelle procedure espropriative per pubblica utilità (v. decisione del 29 marzo 2006, in causa Scordino contro Italia), ha osservato che proprio che l’art. 1 del primo protocollo della CEDU, nelle sue proposizioni, si riferisce con previsione chiaramente generale ai beni, senza operare distinzioni in ragione della qualitas rei.

In applicazione di tali principi, deve perciò ritenersi che, al termine del periodo di moratoria di cui all’art. 1, comma 18, D.L. n. 194/2009 conv. in l. n. 25/2010, dovranno essere equamente indennizzati i titolari di concessioni demaniali scadute a cui subentreranno diversi operatori economici.

La direttiva Bolkenstein, infatti, non osta infatti a che venga tutelata la proprietà commerciale dei concessionari uscenti, nonché il loro diritto superficiario.

De jure condito, pertanto, il diritto all’equo ristoro dei concessionari uscenti, cui non verrà rinnovato il titolo concessorio dopo il 31 dicembre 2020, può ipotizzarsi o disapplicando l’art. 49 cod. nav. per contrarietà con l’art. 17 della Carta di Nizza ovvero con una pronuncia additiva della Corte Costituzionale che, da un lato, dichiari l’incostituzionalità dell’art. 49 cod. nav. per contrasto di esso sia con l’art. 42 Cost., sia con l’art. 117 Cost., assumendo quale norma interposta il ricordato art. 1 del Primo Protocollo Addizionale CEDU; dall’altro lato, stabilisca il diritto dei concessionari uscenti all’equo indennizzo.

De jure condendo, nella riforma unitaria del settore auspicata al comma 18° dell’art. 1 D.L. n. 194/2009, dovrebbe essere previsto che il concessionario subentrante corrisponda a quello uscente un indennizzo, commisurato al valore venale dell’azienda (analogamente a quanto già prospettato nella ricordata segnalazione AGCM del 28 ottobre 1998, AS152).

Ogni tentativo di risolvere il problema senza tutelare i concessionari uscenti, sarebbe al contrario illegittimo sia dal punto di vista del diritto comunitario, sia dal punto di vista del diritto costituzionale.

È vero che il concessionario è l’incumbent, che secondo la Commissione Europea, ostacola le libertà fondamentali dell’Unione; al contempo però al concessionario uscente, che perda quindi la concessione, va riconosciuto il giusto indennizzo, poiché altrimenti il concessionario subentrante trarrebbe uno sperequato beneficio dall’avviamento aziendale del concessionario uscente. Questo soltanto è l’unico modo perché qui ci sia una potenziale circolazione delle concessioni demaniali marittime senza ledere il diritto dei concessionari, i quali, ad oggi, vantano una duplice proprietà, che il diritto comunitario viene a tutelare in pieno: la proprietà immobiliare e la proprietà, chiamiamola così, commerciale.

Agosto 2014

Avvocato Roberto RIGHI                      Avvocato Ettore NESI

Articolo pubblicato sul n. 8/20014 della Rivista NELDIRITTO

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[1] In tema di beni pubblici, v. SANDULLI, Beni pubblici, in Enciclopedia del diritto, V, Milano, 1959, 277; RESTA, Beni pubblici, in Commentario al codice civile, a cura di Scialoja e Branca, Libro III, Bologna, 1962, 63; GIANNINI, I beni pubblici, Roma, 1963; QUERCI, voce Demanio marittimo, in Enc. dir., XII, 1964, 92; CASSESE, I beni pubblici. Circolazione e tutela, Milano, 1967; PASINI-BALUCANI, I beni pubblici e relative concessioni, Torino, 1978, 81; CORBINO, Il demanio marittimo – Nuovi profili funzionali, Milano, 1990, 21; AVANZI, Il nuovo demanio, Padova, 2000.

[2] Tradizionalmente l’uso dei beni pubblici è tripartito in diretto, speciale e eccezionale. L’uso comune prevede una destinazione del bene demaniale attinente alla sua funzione primaria, di cui i singoli possono godere in ugual modo e senza bisogno di alcuna formalità. L’uso speciale – anch’esso funzionalmente attinente – viene invece consentito solo a specifici soggetti che lo esercitano in forza di un titolo idoneo: il pagamento di una somma di denaro, il rilascio di un permesso o di una licenza individuata formalmente nell’autorizzazione. L’uso eccezionale prevede invece il godimento esclusivo del bene da parte di un soggetto determinato grazie ad una concessione di natura costitutiva rilasciata dalla pubblica amministrazione, che fa ottenere al suo beneficiario il riconoscimento di un vero e proprio diritto reale su cosa altrui tutelabile con le azioni possessorie di spoglio e manutenzione.

[3] SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, pp. 755 ss.; v. altresì Id., Beni pubblici, in Enciclopedia del diritto, V, Milano, 1962; CHIEPPA-LOPILATO, Studi di diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 2007, pp. 798 ss.; TONOLETTI, Beni pubblici e concessioni, Padova, 2008, pp. 207 e ss. In giurisprudenza, v. Cass. Civ., Sez. Un., 28 aprile 1989, n. 2015: «tenendo presente la concezione tradizionale, secondo la quale dei beni pubblici dovrebbero esser considerate tre categorie di usi da parte dei singoli: l’uso comune, l’uso speciale e l’uso eccezionale (concezione che la moderna dottrina tende a superare, ritenendo più corretta dal punto di vista giuridico la distinzione tra uso generale e uso particolare, che designano rispettivamente l’uso cui tutti vengono indiscriminatamente ammessi, uti cives, anche se talvolta occorra il pagamento di un prezzo o di una tassa o il rilascio, di un permesso, e l’uso cui vengono ammessi, uti singuli, i beneficiari specifici provvedimenti di concessione), non può evocarsi in dubbio che l’uso del bene demaniale concesso al privato rientri nella categoria dell’uso eccezionale, risultando sottratto lo spazio di ormeggio all’uso comune (o a quello dell’amministrazione) dalla assegnazione di esso all’utente, che ne gode in modo esclusivo in virtù del cosiddetto contratto di ancoraggio». Più di recente, v. T.A.R. Friuli Venezia Giulia, sez. I, 20 maggio 2013, n. 297.

[4] SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, cit., p. 755.

[5] L’art. 28 cod. nav. reca un catalogo dei beni demaniali solo in parte sovrapponibile all’elenco di beni demaniali marittimi del codice civile. Infatti, ai sensi dell’art. 28 cod. nav., fanno parte del demanio marittimo: «a) il lido, la spiaggia, i porti, le rade; b) le lagune, le foci dei fiumi che sboccano in mare, i bacini di acqua salsa o salmastra che almeno durante una parte dell’anno comunicano liberamente con il mare; c) i canali utilizzabili ad uso pubblico marittimo», mentre l’art. 822, comma 1, c.c. si limita a includere tra i beni appartenenti al demanio pubblico «il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti».

[6] Art. 35 “Esclusione di zone dal demanio marittimo” cod. nav: «le zone demaniali che dal capo del compartimento [ 16] non siano ritenute utilizzabili per pubblici usi del mare sono escluse dal demanio marittimo con decreto del ministro dei trasporti e della navigazione di concerto con quello per le finanze».

[7] In base al vigente Codice della navigazione deve distinguersi tra concessioni per licenza e concessioni vere e proprie. Le seconde sono disciplinate dall’art. 36 cod. nav., le prime sono invece regolate dall’art. 8 (“Concessioni per licenza”) reg. esec. cod. nav., il quale stabilisce che «le concessioni di durata non superiore al quadriennio che non importino impianti di difficile rimozione sono fatte dal capo del compartimento con licenza e possono essere rinnovate senza formalità di istruttoria». Sebbene la distinzione tra le due tipologie di concessione non sia sempre netta ed anzi nel codice queste siano sottoposte a una disciplina tendenzialmente unitaria, nondimeno, come osservato in dottrina, «si può, in via del tutto empirica, discriminare la concessione per licenza dalla concessione vera e propria, nel senso che quella si distingue da questa, sia sotto il profilo della sua minore importanza ed entità, sia sotto il riflesso della durata e della natura dell’attività consentita all’utente» (QUERCI, voce Demanio marittimo, in Enc. Dir., vol. XII, Milano 1964, pp. 98-99). Più di recente è stato osservato dal T.A.R. Liguria, Sez. I, nella sentenza n. 305 del 12 marzo 2009 che: «nella concessione con licenza, il canone è prepagato, la durata è temporalmente circoscritta all’evento o alla situazione contingente da soddisfare e le opere strumentali, oltre quelle assentite, sono di ridotto impatto e facilmente rimovibili. Nella concessione d’atto, invece, il pagamento del canone va corrisposto alle scadenze previste, la durata è pluriennale tale da consentire anche l’eventuale ammortamento dei costi di realizzazione di opere o strutture fisse necessarie per l’esecuzione dell’attività disimpegnata nell’area demaniale la cui remissione in pristino, scaduta la concessione, diventa pertanto onerosa».

[8] L’istituto della concessione-contratto è caratterizzato dalla compresenza di un provvedimento di concessione, con cui la p.a. attribuisce al privato un diritto, e una convenzione collegata al provvedimento (che può essere precedente concomitante o successiva all’emanazione della concessione) contenente la disciplina dei rapporti tra la p.a. e il privato in ordine all’attività oggetto di concessione. Lo schema convenzionale della concessione-contratto viene utilizzato soprattutto nelle concessioni a privati di beni pubblici e nelle concessioni di servizi pubblici. Secondo la classificazione dei contratti di diritto pubblico di GIANNINI, le concessioni – contratto rientrano nei cosiddetti contratti di diritto pubblico accessivi a provvedimenti. Si tratta cioè di moduli convenzionali che accedono a provvedimenti, i quali sono già fonte di obbligazioni per il privato e possono produrre effetti unilaterali, quando stabiliscono obblighi solo per lui, o bilaterali, quando determinano obblighi anche per la pubblica amministrazione, v. GIANNINI, Diritto amministrativo, vol.II, Milano, 1993, 344. Per una diffusa disamina sulle c.d. concessioni-contratto, si veda D’ALBERTI, Le concessioni amministrative: aspetti della contrattualità delle pubbliche amministrazioni, Napoli, 1981; v. inoltre Diritto amministrativo (a cura di MAZZAROLLI, PERICU, ROMANO, ROVERSI MONACO, SCOCA), vol. II, Bologna 1998, 1499.

[9] D.L. 5 ottobre 1993, n. 400 conv. in legge 4 dicembre 1993, n. 494 (“Disposizioni per la determinazione dei canoni relativi a concessioni demaniali marittime”).

[10] GIANNINI, I beni pubblici, Roma, 1963, p. 115 e ss.

[11] GIANNINI, I beni pubblici, cit., p. 117.

[12] GIANNINI, I beni pubblici, cit.,p. 118.

[13] GIANNINI, I beni pubblici, cit., p. 118.

[14] Il concetto giuridico di “azienda” si ricava dal combinato disposto dell’art. 2555 c.c. e dell’art. 2082 c.c.. La lettura coordinata delle due disposizioni consente infatti di definire l’azienda come un “complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa” e cioè “per la produzione o lo scambio di beni o servizi” (così MARTORANO, L’azienda, Torino 2010, 1 ss.). Secondo la Cassazione civile «gli elementi identificativi dell’impresa commerciale, ai sensi dell’art. 2082 c.c., sono la professionalità e la organizzazione, intese come svolgimento abituale e continuo dell’attività e sistematica aggregazione di mezzi materiali e immateriali senza che si richieda che l’imprenditore sia anche il proprietario dei beni costituenti l’azienda» (Cass. civ., sez. III, 30 marzo 2010, n. 7626).

[15] Cfr. art. 28 (“Rinnovazione del contratto”) legge 27 luglio 1978, n. 392, il quale stabilisce il rinnovo tacito di sei in sei anni del contratto di locazione di immobili commerciali.

[16] Cfr. Corte Costituzionale, 5 giugno 1984, n. 170: «le confliggenti statuizioni della legge interna non possono costituire ostacolo al riconoscimento della “forza e valore”, che il Trattato conferisce al regolamento comunitario, nel configurarlo come atto produttivo di regole immediatamente applicabili. Rispetto alla sfera di questo atto, così riconosciuta, la legge statale rimane infatti, a ben guardare, pur sempre collocata in un ordinamento, che non vuole interferire nella produzione normativa del distinto ed autonomo ordinamento della Comunità, sebbene garantisca l’osservanza di essa nel territorio nazionale»; cfr. amplius: CONDORELLI, Il caso Simmenthal e il primato del diritto comunitario: due corti a confronto, in Giurisprudenza costituzionale, 1978, pp. 641 ss.; CHITI, Il Trattato sull’Unione europea e la sua influenza sulla Costituzione italiana, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 1993, pp. 346-366; GAIA, Introduzione al diritto comunitario, Roma-Bari, 1999, pp. 121-127; STROZZI-MASTROIANNI, Diritto dell’Unione europea, Torino, 2011, pp. 417-421.

[17] Sul diritto di stabilimento in generale cfr: CONDINANZI-NASCIMBENE, “La libera prestazione dei servizi e delle professioni in generale, in Il diritto privato dell’unione europea (a cura di Tizzano), Torino, 2006, pp. 330-374; sul rapporto tra diritto di stabilimento e la c.d. “direttiva servizi”: MARTIN, «Discriminations», «entraves» et «raisons impérieuses» dans le traité CE: trois concepts en quête d’identité, in CDE 1998, pp. 561-637; D’ACCUNTO, Dir. Servizi, (2006/123/CE) Genesi, obiettivi e contenuto, Milano, 2009.

[18] Così DE VERGOTTINI, secondo cui «la liberalizzazione è, quindi, un insieme di misure dirette a provocare la creazione di un libero ed efficiente mercato quando fosse riscontrabile la presenza di barriere legali di fatto limitanti fortemente la libertà di prestazione. Più specificatamente, poi, quando si parla di liberalizzazione dei servizi pubblici – intendendosi per tali i servizi che rispondono alle esigenze fondamentali della collettività – non solo ci si deve riferire alla graduale apertura dei mercati monopolisti dei cari Stati membri in determinati settori di public utilities, quindi precipuamente all’abbattimento di quelle barriere monopolistiche imposte dalle leggi statali nel mercato dei servizi pubblici, quanto anche ai fenomeni, contemporanei ma differenti, della privatizzazione e della regolazione» (DE VERGOTTINI, La liberalizzazione dei servizi fra Stati e Unione Europea, in Settimo rapporto. Processo di liberalizzazione della società italiana, Milano, 2009, pp. 65 e ss.). In tema di liberalizzazione dei servizi v. anche BERTONAZZI, VILLATA, Servizi di interesse economico generale, in Trattato di diritto amministrativo europeo (a cura di Chiti), Milano, 2007, pp. 1797 e ss.; CONDINANZI, NASCIMBENE, Cittadinanza dell’Unione e libera circolazione delle persone, in Trattato di diritto amministrativo europeo, pp. 87 e ss.

[19] Il decreto ministeriale venne emanato in attuazione dell’art. 6 D.L. 28 febbraio 1983, n. 55, conv. con modificazioni in legge 26 aprile 1983, n. 131. Disponeva il comma 3° del citato art. 6: «Il Ministro dell’interno, di concerto con i Ministri del tesoro e delle finanze, sentite l’Associazione nazionale dei comuni d’Italia, l’Unione delle provincie d’Italia e l’Unione nazionale comuni comunità enti montani, è autorizzato ad emanare entro il 31 dicembre 1983 un decreto che individui esattamente la categoria dei servizi pubblici a domanda individuale». Sul superamento del citato decreto ministeriale in seguito alla riforma degli enti locali, v. Cons. St., Sez. VI, 22 novembre 2013, n. 5532, il quale esclude che, a seguito della complessiva riforma degli Enti Locali, la gestione di uno stabilimento balneare possa configurare un servizio pubblico locale.

[20] Cfr. T.A.R. Lazio Latina sent. n. 610 dell’8 settembre 2006: «la ratio delle prefate norme è quella di garantire massima trasparenza e pubblicità all’azione amministrativa con particolare riguardo alle procedure di scelta del contraente, non v’è ragione di escluderne la sua applicazione – stante l’identità di ratio – anche ai procedimenti volti all’affidamento di concessioni demaniali marittime nei quali la pubblicazione sull’albo pretorio della domanda di concessione ha proprio lo scopo di dare pubblicità all’avviata procedura di scelta del contraente aprendo alla concorrenzialità ovvero ad una procedura di comparazione».

[21] Alla sentenza n. 168/2005 fecero poi seguito ulteriori pronunce di analogo tenore, tra le quali segnaliamo le seguenti decisioni sempre della Sezione VI: n. 716 del 30 dicembre 2005; n. 362 del 30 gennaio 2007; n. 3326 del 1° luglio 2008; n. 7239 del 30 settembre 2010.

[22] Cfr. Cons. St., Sez. VI, sent. n. 168/2005 cit.: «se si considera che, a livello di interpretazione comunitaria, le domande di rinnovo o proroga di appalti o concessioni non possono dare luogo ad una procedura meno trasparente rispetto alle corrispondenti fattispecie di primo grado, si deve concludere nel senso della non praticabilità di ogni opzione interpretativa che, connotando l’istituto del diritto di insistenza di profili di chiaro contrasto con i superiori dettami europei, pretenda di conformare l’esercizio del diritto di cui all’articolo 36 del codice della navigazione di profili di privilegio in capo al concessionario, sub specie di sottrazione ad ogni forma di pubblicità per definizione pregiudiziale all’inaugurazione di una procedura realmente competitiva».

[23] V. altresì Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza n. 362 del 30 gennaio 2007: «l’indifferenza comunitaria al nomen della fattispecie, e quindi alla sua riqualificazione interna in termini pubblicistici o privatistici, fa sì che la sottoposizione ai principi di evidenza trovi il suo presupposto sufficiente nella circostanza che con la concessione di area demaniale marittima si fornisce un’occasione di guadagno a soggetti operanti sul mercato; così da imporre una procedura competitiva ispirata ai ricordati principi di trasparenza e non discriminazione»; nello stesso senso v. le successive decisioni della Sezione VI n. 902 del 17 febbraio 2009 e n. 7239 del 30 settembre 2010.

[24] Secondo il Consiglio di Stato, l’interpretazione comunitariamente orientata dell’art. 37 cod. nav. impone inoltre a carico dell’Amministrazione concedente il bene demaniale un accresciuto onere istruttorio e motivazionale così da evidenziare gli «incombenti adempiuti dalla amministrazione al fini di rendere effettivo il confronto delle istanze in comparazione (e quindi anche sul piano degli adempimenti pubblicitari preventivi), e da cui emergano in modo chiaro, alla luce delle emergenze istruttorie, le ragioni ultime della opzione operata in favore del concessionario prescelto, in applicazione del criterio-guida della più proficua utilizzazione del bene per finalità di pubblico interesse» (Cons. St., Sez. VI, 25 settembre 2009, n. 5765). Nello stesso senso, T.A.R. Lazio, Latina, Sez. I, 2 febbraio 2012, n. 66, il quale ha ribadito che: «l’affidamento in concessione di beni demaniali suscettibili di uno sfruttamento economico debba essere sempre preceduto dal confronto concorrenziale, anche nel caso in cui non vi sia una espressa prescrizione normativa, e che tale principio vada quindi a rafforzare ogni disciplina di settore che già preveda – come accade nel caso dell’art. 37 cod. nav. – il ricorso alla procedura di evidenza pubblica, imponendo l’adozione di specifiche misure volte a garantire un effettivo confronto concorrenziale quali, ad esempio, forme idonee di pubblicità o di comunicazione rivolte ai soggetti potenzialmente interessati a partecipare alla procedura, dei quali l’Amministrazione sia a conoscenza».

[25] In “Guce” 27 dicembre 2006, n.376.

[26] Dal nome del Commissario europeo per il mercato interno, Frits Bolkenstein.

[27] Si legge al 62° considerando della Direttiva n. 06/123/CE: «nel caso in cui il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche, è opportuno prevedere una procedura di selezione tra diversi candidati potenziali, al fine di sviluppare, tramite la libera concorrenza, la qualità e le condizioni di offerta di servizi a disposizione degli utenti. Tale procedura dovrebbe offrire garanzie di trasparenza e di imparzialità e l’autorizzazione così rilasciata non dovrebbe avere una durata eccessiva, non dovrebbe poter essere rinnovata automaticamente o conferire vantaggi al prestatore uscente. In particolare, la durata dell’autorizzazione concessa dovrebbe essere fissata in modo da non restringere o limitare la libera concorrenza al di là di quanto è necessario per garantire l’ammortamento degli investimenti e la remunerazione equa dei capitali investiti. La presente disposizione non dovrebbe ostare a che gli stati membri limitino il numero di autorizzazioni per ragioni diverse dalla scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche. Le autorizzazioni in questione dovrebbero comunque ottemperare alle altre disposizioni della presente direttiva relative ai regimi di autorizzazione».

[28] Art. 12 (“Selezione tra diversi candidati”) della Direttiva n. 2006/123/CE: «1. Qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento.

  1. Nei casi di cui al paragrafo 1 l’autorizzazione è rilasciata per una durata limitata adeguata e non può prevedere la procedura di rinnovo automatico né accordare altri vantaggi al prestatore uscente o a persone che con tale prestatore abbiano particolari legami.
  2. Fatti salvi il paragrafo 1 e gli articoli 9 e 10, gli Stati membri possono tener conto, nello stabilire le regole della procedura di selezione, di considerazioni di salute pubblica, di obiettivi di politica sociale, della salute e della sicurezza dei lavoratori dipendenti ed autonomi, della protezione dell’ambiente, della salvaguardia del patrimonio culturale e di altri motivi imperativi d’interesse generale conformi al diritto comunitario».

[29] Al riguardo v. MARCHEGIANI, Le concessioni demaniali marittime a finalità turistico-ricreative, in Giustamm.it, n. 6-2011, il quale osserva che le concessioni demaniali marittime rientrano nella sfera di applicabilità della c.d. Direttiva servizi in quanto si tratta di autorizzazioni il cui regime, ai sensi dell’art. 9, n. 3, della medesima Direttiva non è disciplinato «direttamente o indirettamente da altri strumenti comunitari». In particolare – osserva l’A. – le concessioni demaniali marittime non rientrano tra gli appalti pubblici, non essendo destinate a fornire prestazioni a favore di un’Amministrazione pubblica; né le medesime concessioni possono ricondursi nel novero delle concessioni servizi. Secondo l’A. le concessioni demaniali marittime turistico-ricreative avrebbero i caratteri della locazione di beni immobili (cfr. Corte di Giustizia C.E. 25 ottobre 2007 in c-174/2006) e sarebbero destinate alla prestazioni di servizi alberghieri tra quelli elencati nella categoria 17 di cui all’allegato B della Direttiva n. 2004/18/CE.

[30] Dispone l’art. 49 TFUE: «Nel quadro delle disposizioni che seguono, le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro vengono vietate. Tale divieto si estende altresì alle restrizioni relative all’apertura di agenzie, succursali o filiali, da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti sul territorio di un altro Stato membro.

La libertà di stabilimento importa l’accesso alle attività autonome e al loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese e in particolare di società ai sensi dell’articolo 54, secondo comma, alle condizioni definite dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini, fatte salve le disposizioni del capo relativo ai capitali».

[31] Art. 51 TFUE (ex articolo 45 del TCE):

“Sono escluse dall’applicazione delle disposizioni del presente capo, per quanto riguarda lo Stato membro interessato, le attività che in tale Stato partecipino, sia pure occasionalmente, all’esercizio dei pubblici poteri.

Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, possono escludere talune attività dall’applicazione delle disposizioni del presente capo”.

[32] Art. 52 TFUE (ex articolo 46 del TCE):

“1. Le prescrizioni del presente capo e le misure adottate in virtù di queste ultime lasciano impregiudicata l’applicabilità delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che prevedano un regime particolare per i cittadini stranieri e che siano giustificate da motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica.

  1. Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, stabiliscono direttive per il coordinamento delle suddette disposizioni”.

[33] Si ricorda che, ai sensi dell’art. 105 (Funzioni conferite alle regioni e agli enti locali) del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112,: «1. Sono conferite alle regioni e agli enti locali tutte le funzioni non espressamente indicate negli articoli del presente capo e non attribuite alle autorità portuali dalla legge 28 gennaio 1994, n. 84, e successive modificazioni e integrazioni.

  1. Tra le funzioni di cui al comma 1 sono, in particolare, conferite alle regioni le funzioni relative: (…)
  2. l) al rilascio di concessioni di beni del demanio della navigazione interna, del demanio marittimo e di zone del mare territoriale per finalità diverse da quelle di approvvigionamento di fonti di energia».

[34] Corte Cost., sent. 20 maggio 2010, n. 180: «la norma impugnata determina, dunque, un’ingiustificata compressione dell’assetto concorrenziale del mercato della gestione del demanio marittimo, invadendo una competenza spettante allo Stato, violando il principio di parità di trattamento (detto anche “di non discriminazione”), che si ricava dagli artt. 49 e ss. del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, in tema di libertà di stabilimento, favorendo i vecchi concessionari a scapito degli aspiranti nuovi.

La previsione di una proroga dei rapporti concessori in corso, in luogo di una procedura di rinnovo che «apra» il mercato, è del tutto contraddittoria rispetto al fine di tutela della concorrenza e di adeguamento ai principi comunitari (sentenza n. 1 del 2008)».

[35] Con sent. n. 233/2010 è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 36, comma 2, L.R. Friuli-Venezia Giulia 30 luglio 2009, n. 13.

[36] La sent. n. 340/2010 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 16, comma 2, L.R. Toscana 23 dicembre 2009, n. 77 (Legge finanziaria per l’anno 2010) la quale prevedeva che, in materia di concessioni demaniali marittime ad uso turistico-ricreativo, su richiesta del concessionario, potesse essere disposta una proroga fino ad un massimo di venti anni, in ragione dell’entità degli investimenti realizzati e dei relativi ammortamenti, sulla base di criteri e modalità stabiliti dalla Giunta regionale con regolamento.

[37] Con la sentenza n. 213/2011, la Corte Costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittime le seguenti disposizioni:

– art. 4, comma 1, L.R. Marche 11 febbraio 2010, n. 7 (Norme per l’attuazione delle funzioni amministrative in materia di demanio marittimo);

– l’art. 5 L.R. Veneto 16 febbraio 2010, n. 13 (Adeguamento della disciplina regionale delle concessioni demaniali marittime a finalità turistico-ricreativa alla normativa comunitaria. Modifiche alla legge regionale 4 novembre 2002, n. 33 «Testo unico delle leggi regionali in materia di turismo» e successive modificazioni);

– gli artt. 1 e 2 L.R. Abruzzo 18 febbraio 2010, n. 3 (Estensione della durata delle concessioni demaniali per uso turistico-ricreativo). Osserva la Corte: «la finalità del legislatore è stata, dunque, quella di rispettare gli obblighi comunitari in materia di libera concorrenza e di consentire ai titolari di stabilimenti balneari di completare l’ammortamento degli investimenti nelle more del riordino della materia, da definire in sede di Conferenza Stato-Regioni» (Corte Cost., 18 luglio 2011, n. 213), vd. anche MONICA, Le concessioni demaniali marittime in fuga dalla concorrenza, in Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario, 2, 2013.

[38] La Corte Costituzionale con sent. n. 235 del 22 luglio 2011 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 13, Legge Regionale Campania n. 2/2010 nella parte in cui prevedeva che “non è possibile prevedere biglietti di ingresso per l’accesso alla battigia ove l’unico accesso alla stessa è quello dell’uso in concessione ai privati». Osserva infatti la Corte che «la battigia fa parte del demanio marittimo e la relativa disciplina rientra nella materia dell’ordinamento civile, riservata alla potestà legislativa esclusiva statale. La legislazione regionale non può disciplinare le modalità di accesso alla battigia, che sono regolate dal decreto legge 5 ottobre 1993, n. 400 (Disposizioni per la determinazione dei canoni relativi a concessioni demaniali marittime), convertito in legge 4 dicembre 1993, n. 494”. Sul punto v. altresì Corte Cost. 14 novembre 2008, n. 370: «la titolarità di funzioni legislative e amministrative della Regione in ordine all’utilizzazione di determinati beni non può incidere sulle facoltà che spettano allo Stato in quanto proprietario e che la disciplina degli aspetti dominicali del demanio statale rientra nella materia dell’ordinamento civile di competenza esclusiva dello Stato (sentenze n. 102 e n. 94 del 2008, n. 286 del 2004, n. 343 del 1995). Di recente, con specifico riferimento al demanio marittimo, questa Corte ha precisato che «la competenza della Regione nella materia non può incidere sulle facoltà che spettano allo Stato in quanto proprietario. Queste infatti precedono logicamente la ripartizione delle competenze ed ineriscono alla capacità giuridica dell’ente secondo i principi dell’ordinamento civile» (sentenza n. 427 del 2004)». LEONELLO, Demanio marittimo tra Stato e autonomie territoriali: poteri dominicali e funzioni amministrative, nota a Corte Cost., 14 novembre 2008, n. 370, in Diritto dei Trasporti, 1, 2010; BENVENUTI, Industria del Turismo e beni demaniali, in Dir. Mar., 2, 2004, pp. 406 ss.; OLIVI, Beni demaniali ad uso collettivo. Conferimento di funzioni e privatizzazione, Padova, 2005; Id., Il demanio marittimo tra Stato e autonomie territoriali: titolarità del bene e titolarità di funzioni, in Foro amm. – C.d.S., 2006, 2423.

[39] L’art. 23 D.L. 30 dicembre 2005 n. 273 conv. in legge 23 febbraio 2006, n. 51 (“Definizione e proroga di termini, nonché conseguenti disposizioni urgenti) stabiliva infatti il prolungamento automatico del termine del periodo transitorio di cui all’art. 15, comma 5, del d.lgs. 164/2000 dal 31 dicembre 2005 al 31 dicembre 2007, nonché, a determinate condizioni, la proroga automatica di tale periodo dal 31 dicembre 2007 al 31 dicembre 2009. Al riguardo la Corte di Giustizia CE, rilevato che la direttiva di riferimento (la n. 2003/55) non prevedesse la messa in discussione delle concessioni di distribuzione del gas in essere, osservava che «il principio della certezza del diritto esige, segnatamente, che le norme giuridiche siano chiare, precise e prevedibili nei loro effetti, in particolare qualora esse possano comportare conseguenze sfavorevoli in capo ai singoli e alle imprese (v., in tal senso, sentenza 7 giugno 2005, causa C-17/03, VEMW e a., Racc. pag. I-4983, punto 80 e giurisprudenza ivi citata)”, con la conseguenza che, nel caso di concessioni rilasciate anteriormente alla direttiva n. 2003/55, «il principio della certezza del diritto non soltanto consente, ma altresì esige che la risoluzione di siffatta concessione sia corredata di un periodo transitorio che permetta alle parti del contratto di sciogliere i rispettivi rapporti contrattuali a condizioni accettabili sia dal punto di vista delle esigenze del servizio pubblico, sia dal punto di vista economico» (Corte di giustizia CE, 17 luglio 2008, C- 347/06, ASM Brescia S.p.A.).

[40] Circa la possibilità di prorogare ex lege un rapporto di durata, viene osservato in Cons. St., Sez. V, 21 maggio 2010,  n. 3216: «il principio di irretroattività della legge, sancito dall’art. 11 disp. prel. c.c., implica l’applicabilità della norma sopravvenuta agli effetti non ancora esauriti di un rapporto giuridico sorto anteriormente, quando la nuova legge sia diretta a disciplinare tali effetti, con autonoma considerazione dei medesimi, indipendentemente dalla loro correlazione con l’atto o il fatto giuridico che li abbia generati (Cassazione civile, sez. III, 16 aprile 2008, n. 9972); la legge sopravvenuta può quindi ben recare una nuova disciplina del rapporto giuridico in corso allorché esso, sebbene sorto anteriormente, non abbia ancora esaurito i propri effetti e purché la norma innovatrice sia diretta a regolare, non il fatto generatore del rapporto, ma il suo perdurare nel tempo (Cassazione civile, sez. I, 09 febbraio 2001, n. 1851)».

[41] Di segno contrario si registra una decisione, assunta in sede cautelare dal T.A.R. Sardegna, secondo cui il diritto di insistenza e il regime di proroga (sia pure ex lege sino al 31 dicembre 2015 ex comma 18 dell’art. 1 D.L. n. 194/2009 conv. in legge n. 25/2010) sarebbero incompatibili con i principi di derivazione comunitaria, cosicché il Giudice nazionale sarebbe legittimato a disapplicare la normativa interna contrastante con detti principi (cfr. T.A.R. Sardegna, Sez. I, ord. n. 473 del 27 ottobre 2010 il quale, in sede cautelare, aveva osservato come l’applicazione del comma 18° dell’art. 1 D.L. n. 194/2009 conv. in l. n. 25/2010 non apparisse “coerente con i principi comunitari in materia di trasparenza, non discriminazione, libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi, in quanto idonea a sottrarre dal mercato beni produttivi al di fuori di ogni procedimento concorsuale”).

[42] Le direttive possono avere efficacia diretta sull’ordinamento interno degli Stati membri al presentarsi di tre  condizioni «a) pongano obblighi con un contenuto precettivo sufficientemente chiaro e preciso, tale da non lasciare margine di discrezionalità agli Stati; b) abbiano carattere incondizionato, tale cioè da non richiedere l’adozione di ulteriori atti di diritto interno; c) creino diritti a favore dei singoli chiaramente individuabili» (STROZZI- MASTROIANNI, Diritto dell’Unione europea, cit. pp. 267 e ss.); per un’applicazione di detti principi nel nostro ordinamento si vedano le sentenze 23 febbraio 1994, Regione Lombardia, C-236/92 e 3 ottobre 2000, Gozza, C-371/97.

[43] Quanto alla disapplicabilità dell’art. 01, comma 2, D.L. n. 400/1993 conv. in legge n. 494/1993, per il caso di rinnovi automatici intervenuti anteriormente alla proroga ex lege di cui all’art. 1, comma 18°, D.L. n. 194/2009, v. Cons. St., Sez. VI, 29 gennaio 2013, n. 525 e T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, 23 novembre 2011, n. 833.

[44] Quanto all’esigenza di remunerare gli investimenti compiuti dal concessionario, osserva sempre il T.A.R. Salerno che «tale esigenza non è estranea alla ratio della previsione comunitaria, laddove si consideri che la direttiva in esame, nel prevedere una durata limitata “adeguata” dell’autorizzazione, ne chiarisce il significato nella esigenza di “non restringere o limitare la libera concorrenza al di là di quanto è necessario per garantire l’ammortamento degli investimenti e la remunerazione equa del capitale investito”».

[45] Viene infine sottolineato dalla Sezione VI che «la Corte, in base all’art. 27 della legge 87/1953, può dichiarare quali sono le altre disposizioni legislative, la cui illegittimità deriva come conseguenza dalla decisione adottata. Tale potere officioso non è sottoposto ad alcun limite: ciò lo si deduce dal confronto con il primo periodo della medesima disposizione che restringe la dichiarazione di incostituzionalità, in accoglimento di una istanza o ricorso, nei limiti dell’impugnazione. Il mancato esercizio di tale potere è certamente indice della ritenuta, sia pure implicitamente, legittimità della norma, non sussistendo limiti derivanti dal tipo di giudizio (ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri) nel quale era stata prospettata l’illegittimità di altre norme» (Cons. St., Sez. VI, sent. n. 6682/2012 cit.).

[46] Il diritto di superficie costituisce un tipico diritto reale di godimento, di carattere limitato (ius in re aliena) che, in deroga alla regola generale dell’accessione (art. 934 cod. civile), consente di distinguere la proprietà del suolo da quelle degli edifici che su di esso insistono. Sono due le ipotesi di diritto di superficie: si può avere un diritto di proprietà su costruzione esistente, c.d. proprietà superficiaria (art. 952, comma 2°, c.c.) ovvero un diritto di costruire c.d. concessione ad aedificandum (art. 952, comma 1°, c.c.). Il diritto di superficie del primo tipo (c.d. proprietà superficiaria) non si prescrive, né si estingue in caso di perimento dell’edificio con cui si incorpora il medesimo diritto, salvo patto contrario (art. 954 c.c.). Il diritto di superficie può tuttavia estinguersi per scadenza del termine, allorché il diritto sia stato costituito soltanto per un tempo determinato (artt. 953 e 954 c.c.). In quest’ultimo caso, all’estinzione del diritto di superficie, il proprietario del suolo diventa proprietario della costruzione (art. 953 c.c.). La concessione ad aedificandum, al contrario, si prescrive per effetto del non uso protratto per venti anni (art. 954, ult. comma, c.c.). Sul punto v. TRABUCCHI, “Istituzioni di diritto civile”, Padova, 1997, p. 474.

[47] A tal proposito è stato infatti osservato in giurisprudenza che «normalmente (salva l’ipotesi di cui all’art. 2822 comma 1 cod. civ.), l’ipoteca volontaria può essere concessa soltanto dal proprietario del bene che ne forma l’oggetto» e quindi «conformemente a quanto disposto dall’art. 952 comma 1 cod. civ., laddove stabilisce, quale possibile deroga al principio affermato dall’art. 934 cod. civ., che “il proprietario può costituire il diritto di fare e mantenere al di sopra del suolo una costruzione a favore di altri, che ne acquista la proprietà”» (così Cass., Sez. I, 4 maggio 1998, n. 4402).

[48] Dal momento che l’art. 46 cod. nav. «stabilisce (al comma 2) che, in caso di vendita o di esecuzione forzata, l’acquirente o l’aggiudicatario di opere o impianti costruiti dal concessionario su beni demaniali non può subentrare nella concessione senza l’autorizzazione dell’autorità concedente (la quale, peraltro, in caso di vendita forzata, può dichiarare la decadenza del concessionario, e, in caso di esecuzione forzata, può revocare la concessione: cfr. art. 30 comma 3 reg. es. cit.); e che la previsione sia della vendita (art. 1470 cod. civ.), sia dell’esecuzione forzata (art. 2910 comma 1 cod. civ.) di tali opere o impianti presuppone necessariamente che il venditore o il debitore esecutato ne sia proprietario – a ciò consegue che, normalmente, salvo che non sia diversamente stabilito nel titolo (atto di concessione), la concessione avente (anche) ad oggetto lo jus aedificandi comporta l’acquisto della proprietà delle opere costruite da parte del concessionario, conformemente a quanto previsto per la costituzione del diritto di superficie (art.952 comma 1 cit.)» (Cass., Sez. I, sent. n. 4402/1998 cit.).

[49] La circostanza che le opere costruite dal concessionario vengano acquisite in proprietà dallo Stato senza indennizzo costituisce un rilievo decisivo del carattere reale del rapporto, diversamente dal caso in cui la concessione preveda che le opere realizzate vengano demolite a cura e spese del concessionario, con conseguente obbligo di restituzione del bene demaniale concesso nello stato originario (cfr. Cass., Sez. I, 4 maggio 1998, n. 4402). Ciò in quanto l’art. 49, comma 1, cod. nav. ricalcherebbe la regola contenuta nell’art. 953 cod. civ., secondo cui, se la costituzione del diritto è stata fatta a tempo determinato, allo scadere del termine il diritto di superficie si estingue e il proprietario del suolo diventa proprietario della costruzione. Se infatti l’art. 953 c.c. considera compatibile con la costituzione del diritto di superficie l’apposizione di una scadenza, stabilendo che il sopraggiungere della scadenza de qua segni il passaggio della proprietà del fabbricato al proprietario del suolo, la premessa implicita non può allora che essere la titolarità del diritto in capo al superficiario fino alla scadenza (cfr. Cass., Sez. I, 10 luglio 1999, n. 7273).

[50] L’avviamento è l’attitudine dell’azienda a produrre, a beneficio dell’imprenditore, utilità economiche maggiori di quelle che, indipendentemente dall’organizzazione aziendale, potrebbero ricavarsi dai singoli beni che la compongono. In tema di avviamento commerciale, la Cassazione ha precisato che «essendo l’avviamento una qualità dell’azienda, quale complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa (art. 2555 c.c.), il maggior valore economico che esso fa acquisire agli elementi che la compongono compete a chi li abbia organizzati ai fini della produzione o dello scambio di beni o di servizi» (Cass. civ., sez. II, 6 dicembre 1995, n. 12575).

[51] Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (2000/C 364/01), proclamata il 7 dicembre 2000 e adottata il 12 dicembre 2007. Ai sensi dell’art. 6 TUE: «1. L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati. Le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati. I diritti, le libertà e i principi della Carta sono interpretati in conformità delle disposizioni generali del titolo VII della Carta che disciplinano la sua interpretazione e applicazione e tenendo in debito conto le spiegazioni cui si fa riferimento nella Carta, che indicano le fonti di tali disposizioni. 2. L’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze dell’Unione definite nei trattati. 3. I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali».

[52] Ai sensi dell’art. 1 del Primo Protocollo Addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti, «ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale». In tema di tutela del diritto di proprietà nella giurisprudenza della CEDU, v.: NUNUN, Osservazioni sulla tutela del diritto di proprietà nel sistema della convenzione europea dei Diritti dell’uomo, in Riv. dir. Internaz., 1991; CONDORELLI, La proprietà nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. dir. Internaz., 1970; PADELLETTI, La tutela della proprietà nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Milano, 2003; BUONOMO, La tutela della proprietà dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, Milano, 2004.

[53] Sul punto v. VETTORI, Circolazione dei beni ed ordinamento comunitario, Prolusione al XLVII Corso della Scuola di Notariato di Firenze tenuta il giorno 9 febbraio 2008.

[54] Conclude la Corte di Giustizia CE, osservando che l’esigenza di rispettare i diritti fondamentali vincola anche gli Stati membri quando essi danno esecuzione alle discipline comunitarie di cui trattasi, cosicché essi «sono comunque tenuti, per quanto possibile, ad applicare tali discipline nel rispetto delle esigenze ricordate» (sent. Hubert Wachauf cit.).